Corso tenuto dal prof. Antonio Lurgio
Appunti da incontri presso la canonica di Canova,
PARROCCHIA SAN PIO X
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L’interpreazione del Concilio di Trento
Nella quattordicesima sessione del Concilio di Trento (25 novembre 1551) c’è scritto al cap. 1: “Ma il Signore ha istituito il sacramento della penitenza principalmente quando, risorto dai morti, soffiò sui suoi discepoli dicendo: «Ricevete lo Spirito santo; a chi rimetterete i peccati, saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi».
Il consenso di tutti i padri ha sempre interpretato che con questo avvenimento così importante e con queste parole così chiare, è stato comunicato agli apostoli e ai loro legittimi successori il potere di rimettere o di ritenere i peccati, per riconciliare i fedeli caduti dopo il battesimo, e con piena ragion la chiesa cattolica ha rigettato e condannato come eretici i Novazioni, che un tempo negavano ostinatamente il potere di rimettere i peccati.
Perciò questo santo sinodo, approdando e accogliendo questo verissimo senso di quelle parole del Signore, condanna le interpretazioni menzognere di quelli che, contro l’istituzione di questo sacramento, distorcono quelle parole dal loro vero significato per applicarle al potere di predicare la parola di Dio e di annunziare il vangelo del Cristo”.
Canoni del Concilio di Trento
N. 3: “Se qualcuno dirà che le parole del Salvatore: «Ricevete lo Spirito santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete resteranno non rimessi», non devono intendersi riferite al potere di rimettere e di ritenere i peccati nel sacramento della penitenza, come fin dall’inizio la Chiesa cattolica ha sempre interpretato, e se per contraddire l’istituzione di questo sacramento, ne falsa il significato riferendolo al potere di predicare il Vangelo, sia anatema, sia scomunicato! ”
La traduzione oggi più autentica dal punto di vista esegetico
, per quanto riguarda la terminologia di Gv 20, 19-23, è un’altra e cioè: “Ricevete Spirito Santo, coloro che libererete dai peccati ne resteranno liberati, coloro a cui li imputerete ne resteranno imputati.”
Quando Giovanni scrive: “Dove si trovavano i discepoli” (Gv 20, 19), non intende dire quanti erano (12 o 13 o di più, oppure solo maschi…), ma vuole indicare tutti coloro che hanno dato o che daranno adesione a Gesù. Su questi lo Spirito Santo soffia e cioè: non su quel determinato numero di persone, ma su tutti coloro che entreranno a far parte della sua comunità. I “discepoli” indica la totalità di coloro che, in ogni tempo, si mettono alla sequela di Gesù. Infatti in questa pericope non c’è alcun nome proprio, i discepoli sono anonimi appunto perché sono quelli che lo diventeranno lungo la storia.
Qual era la situazione dei discepoli che emerge da questi versetti? Vivevano in un luogo con le porte sprangate per paura dei Giudei. Giovanni ci vuol dire che stavano in un ambiente ostile e la paura denota anche la loro insicurezza. Questi discepoli non hanno ancora l’esperienza di Gesù risorto, che fino ad ora ha fatto solo Maria Maddalena – che rappresenta la comunità – quando nel giardino ha incontrato Gesù.
Le porte chiuse, rimandano al testo di Isaia (26, 20) dove leggiamo:”Va’, popolo mio, entra nelle tue stanze e chiudi la porta dietro di te. Nasconditi per un momento finché non sia passato lo sdegno. Perché ecco il Signore esce dalla sua dimora…”
Come l’antico Israele, i discepoli che avevano incominciato il loro esodo, la loro uscita dall’istituzione religiosa giudaica seguendo Gesù, sono intimoriti davanti al potere nemico e sono nella notte, in quella notte in cui il Signore però li riscatterà dall’oppressione (libro dell’Esodo 12, 42: “Notte di veglia fu questa per il Signore per farli uscire dal paese d’Egitto”, oppure Deuteronomio “Ti trasse fuori dall’Egitto di notte il Signore tuo Dio”), la notte della liberazione, in cui i discepoli faranno l’esperienza del Gesù vivo in mezzo a loro.
La determinazione temporale “la sera di quel giorno” si trova anche in Gv 6, 16, quando i discepoli si allontanarono e partirono per l’altra riva del mare.
Come in quella occasione, anche qui Gesù si presenta per recuperare i suoi ed evitare che essi si perdano. I “Giudei” nel testo di Giovanni non sono “il popolo” ma “i capi del popolo” e cioè l’istituzione religiosa e politica. L’espressione “per paura dei Giudei” è presente in due passi precedenti del vangelo di Giovanni: al capitolo 7,13 dove la paura impediva alla folla di parlare apertamente di Gesù e al capitolo 19,38 dove il timore faceva di Giuseppe d’Arimatea, un discepolo clandestino.
Questa è la situazione in cui si trova la comunità di Gesù: impaurita, nascosta, senza il coraggio di pronunciarsi pubblicamente in favore di colui che è stato condannato in modo ingiusto. Il messaggio che Maria Maddalena ha portato alla comunità, non li ha ancora liberati dal timore; non basta sapere che Gesù è risuscitato, solo la sua presenza può dare la sicurezza e la gioia in mezzo alla ostilità del mondo. E’ una comunità che ha saputo che Gesù è risorto, ma ha ancora problemi ad accoglierlo vivo in mezzo a sé, perché una cosa è sapere che è risorto, un’altra cosa è fare l’esperienza del vivente.
In questo versetto 19 Gesù si presenta ai suoi mantenendo la promessa che aveva loro fatto precedentemente: “Non vi lascerò soli/orfani/abbandonati, tornerò con voi, entro un breve tempo il mondo cesserà di vedermi, voi invece mi vedrete, perché io ho la vita e anche voi l’avrete”.
Gesù aveva anticipato il ritorno e adesso viene a liberare i suoi. “Si fermò in mezzo a loro”, cioè nel mezzo perché la persona che sta in mezzo nei vangeli è la più importante. Per la comunità, è Gesù la fonte della vita, il punto di riferimento, il fattore di unità, la vite nella quale si innestano i tralci che sono i discepoli. Gesù è il luogo in cui splende la Gloria che la comunità contempla, il santuario di Dio che accompagna la comunità nel suo cammino. La comunità cristiana è incentrata in Gesù e soltanto in Lui.
Gesù non percorre lo spazio dalla porta al centro, la sua presenza si effettua direttamente al centro del luogo: cioè, la presenza di Gesù nella comunità non è mai una presenza marginale che poi la comunità deve portare al centro, perché non è questo il suo compito, ma è sola è immediatamente centrale. E’ Gesù il centro della comunità ed essa esiste solo se è centrata su Gesù; ecco perché l’evangelista presenta Gesù che appare direttamente in mezzo.
Il vangelo di Giovanni è molto chiaro: uno solo è il Maestro, il Pastore, colui che è il padrone della vita. Quando una comunità tende ad emarginare Gesù, significa che quella comunità ha paura e non è in grado di fare l’esperienza del vivente in mezzo a sé.
“Pace”. Giovanni riprende ciò che Gesù aveva già detto ai suoi al capitolo 14, 27 per ridare forza e vitalità alla sua comunità che per paura ha perso la pace. “Pace” è il saluto di colui che ha vinto il mondo e nello stesso tempo la morte.
“Detto questo, mostrò loro le mani e il costato” (v. 20a). Gesù si fa riconoscere dai propri discepoli come colui che dimostra il suo amore fino alla morte. Per amore dei discepoli e dell’uomo Gesù ha donato la vita, ma l’ha anche riacquistata; il Gesù vivo innanzi a loro è il medesimo Gesù che hanno visto morto sulla croce, e le mani e il costato, vogliono essere anche il segno della identità: non c’è differenza, è l’identico Gesù.
Se prima avevano paura della morte che potevano subire da parte dei Giudei o romani, ora i discepoli, sanno che nessuno può togliere la vita che Gesù comunica. “Pace a voi” ha il senso della pace piena/totale, della felicità, della realizzazione, della beatitudine. E’ come dire: “Di cosa avete paura, se non sono riusciti ad uccidere me non riusciranno neanche ad uccidere voi”.
Mostrando i segni della sua morte, Gesù si manifesta anche come l’agnello di Dio che è stato immolato e il cui sangue, nella notte dell’esodo, ha liberato definitivamente dalla morte (l’autore di questo vangelo, sta facendo un parallelismo tra Gesù, vero agnello, e l’agnello della pasqua memoriale della liberazione dall’Egitto).
La permanenza dei segni sulle mani e sul costato di Gesù, indica anche la permanenza del suo amore. Sia nella scena della croce sia qui, l’evangelista ci vuol far capire che il costato aperto di Gesù, segno del suo amore, resta aperto per sempre e cioè che il suo amore non verrà mai meno. In questa apparizione, Gesù si presenta ai suoi discepoli con i segni della croce per significare che lui sarà sempre il Messia re e crocifisso, dal quale sgorgheranno sempre sangue e acqua.
Nel vangelo di Giovanni, le mani di Gesù e del Padre hanno un particolare significato (3,35; 10,28-29): danno sicurezza ai discepoli; rappresentano la potenza di Gesù che li difende; le mani libere sono il segno della vittoria di Gesù e della sua attività, quelle che hanno la piena disponibilità di tutto, perché il Padre ha posto tutto nelle sue mani.
Il costato, che era stato trafitto dalla lancia, è la dimostrazione del suo amore senza limite. Le sue mani devono portare a compimento l’opera del suo amore. “I discepoli gioirono al vedere il Signore”.
Al versetto 21, Gesù introduce la missione dei Suoi e ripete il saluto”Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi”. Con il suo primo saluto Gesù ha voluto liberare i discepoli dal timore/paura assicurandoli della vittoria finale. Ora, questa sicurezza e questo coraggio dovranno accompagnare i discepoli nella missione che Gesù affida loro: portare frutti di vita…
Siamo al momento finale, quello dell’invio, della missione e spetta quindi ai discepoli realizzare le opere di Colui che li ha inviati: Gesù ha operato, ora tutti i discepoli di ogni epoca, dovranno realizzare le opere di Gesù e produrre frutto, uniti a Lui. La comunità non può produrre opere diverse da quelle prodotte da Gesù, pena la sua inutilità, e non può arrogarsi i diritti che sono di Gesù o del Padre (cfr. Gv 15, 1-2).
Ciò che vuole Gesù, lo vuole anche il Padre e la missione della comunità deve seguire l’esempio di “Gesù che ha amato i suoi sino alla fine/estremo” (Gv 13, 1). Nessun limite all’amore! La comunità deve arrivare là dove è finito Gesù: sulla croce. Stavano presso la croce di Gesù sua madre (cioè l’Israele fedele) e il discepolo che egli amava (cioè la nuova comunità). Realizzare la stessa missione di Gesù, significa fare la stessa fine.
“Detto questo, soffiò su di loro e disse: Ricevete Spirito santo”. Non dice “lo Spirito santo”. L’articolo determinativo è assente e il motivo è questo: l’articolo indica la totalità dello Spirito e questo è sceso solo su Gesù nel momento del battesimo (Gv 1, 32), mentre l’assenza indica solo lo Spirito che i discepoli sono in grado di ricevere.
Quando nei vangeli si parla di Spirito santo, non dobbiamo andare subito alla teologia trinitaria di S. Agostino o S. Tommaso o altri. Per l’evangelista lo Spirito è l’energia, la forza e la vita di Dio, che rivitalizza/dona vita all’uomo, ed è santa quando viene da Dio, mentre quando viene dalle forze che a Dio si oppongono allora è uno spirito impuro/immondo.
Il verbo che l’evangelista usa è “soffiò” (emise il suo alito) ed è lo stesso verbo che si trova in Genesi 2,7, per indicare quella animazione dell’uomo quando Dio gli infonde il suo alito vitale: “Soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente”. La qualità di vita dell’uomo, secondo il disegno di Dio, è la vita definitiva, quella che supera la morte fisica e la missione del discepolo di Gesù è quello di comunicare questa vita che supera la morte e che si identifica con la resurrezione.
Abbiamo compreso nel vangelo di Giovanni che “ultimo giorno” non è il giorno della fine dei tempi, ma è il giorno della croce di Gesù, la sua pasqua. Quando diciamo: “Lo risusciterò nell’ultimo giorno”, non si deve intendere l’ultimo giorno del tempo cronologico, ma il giorno in cui Gesù morendo sconfigge la morte e porta a compimento la creazione di Dio (“Tutto è compiuto/realizzato”, Gv 19, 30).
Lo Spirito che Gesù comunica, crea nei suoi discepoli la nuova condizione umana.
E’ l’uomo nuovo che insieme a Gesù e al Padre collabora per la realizzazione definitiva della creazione. “Ricevere Spirito santo “, significa nascere da Dio, avere capacità di diventare figli di Dio. In tal modo l’uomo supera la sua condizione di carne e cioè l’egoismo, la fragilità, la transitorietà, la paura (…) perché questa condizione è stata trasformata dallo Spirito, è stata assunta dalla forza rivitalizzante di Dio che Gesù trasferisce nei suoi discepoli di ogni tempo abilitandoli a donarsi generosamente agli altri, come lui, fino all’estremo.
Portare a compimento la creazione dell’uomo, donandogli lo Spirito, e con esso la capacità di amare fino all’estremo, è ciò che libera l’uomo dal peccato del mondo e lo tira fuori dalla sfera dell’oppressione. Il dono dello Spirito, rende l’uomo nuovo, lo tira fuori dalla situazione di peccato. L’esperienza di vita nuova donata dallo Spirito, è la verità che rende l’uomo libero, traendolo fuori dalla schiavitù e da tutte le condizioni di vita precedente.
I discepoli cessano di appartenere al mondo, rompono con il sistema d’ingiustizia del mondo ed entrano nella sfera di Gesù, la comunità unita a lui dalla sintonia del suo Spirito.
Lo Spirito lo possiamo identificare anche con il vino eccellente dell’amore che inaugura la nuova alleanza (Nozze di Cana). Questo vino comunica dall’interno ai discepoli l’esperienza di Dio come Padre portandoli a quella conoscenza che è la vita del Figlio.
Versetto 23: “Coloro che libererete dai peccati ne resteranno liberati, coloro a cui li imputerete ne resteranno imputati”. Gesù non sta parlando ad una categoria particolare di persone, ma ai suoi discepoli nella loro interezza, cioè sta parlando a tutta la sua comunità, all’intera Chiesa. Il peccato secondo Giovanni si riferisce alla condizione dell’uomo che non ha ancora incontrato Gesù. Nei vangeli, gli uomini che non hanno ancora incontrato Gesù sono nella esperienza di peccato; dopo l’incontro e la sequela, l’evangelista utilizza altri termini per indicare situazioni negative e cioè colpa, mancanza, ma mai più peccato.
Il peccato nel vangelo di Giovanni significa e consiste nell’aderire volontariamente ad un ordinamento ingiusto
dando adesione a un sistema ingiusto di cose: un sistema oppressore che schiavizza l’uomo, le ingiustizie concrete che negano all’uomo la sua dignità… L’individuo che accetta un sistema ingiusto, può farlo volontariamente o perché non conosce altra possibilità (è nato in esso). Due brani presenti in Giovanni possono evidenziare tale concettualizzazione: “La guarigione del paralitico” (Gv 5, 1-18) e il “Cieco dalla nascita” (Gv 9, 1-41).
Il paralitico era così da 38 anni (il numero richiama, secondo il Deuteronomio, la permanenza di Israele nel deserto dopo la liberazione dall’Egitto) e quindi era stato capace di decisione di peccato. Tale situazione gli derivava dalla sua adesione volontaria alla istituzione oppressiva (ricordiamo che i 5 portici della piscina richiamano tematicamente il pentateuco e cioè la Legge di cui l’istituzione religiosa si serviva per il proprio potere). Gesù libera questo invalido donandogli la forza vitale che gli permette di uscire dalla propria situazione.
Il cieco invece non aveva peccato poiché era cieco dalla nascita e non aveva mai avuto possibilità di scelta. Gesù gliela offre mostrandogli cosa significa essere nuova creatura (Gv 9, 6 qui Gesù rinnova il gesto creatore di Dio nella Genesi 2, 7).
Ma ci sono farisei e gli altri appartenenti alla istituzione giudaica (che Giovanni qualifica con il termine “Giudei”), i quali davanti all’attività di Gesù a favore dell’uomo, prendono posizione contro di lui e la sua attività. Questi sono i nemici dell’uomo e ad essi Gesù dichiara che il loro peccato rimane (Gv 9, 41).
Agli oppressi che non hanno mai conosciuto la dignità umana (i ciechi dalla nascita), la comunità di Gesù deve far sperimentare il progetto divino sull’uomo realizzato in Gesù e cioè: essere per ogni uomo esperienza di libertà, dignità e pienezza di vita.
A quelli che hanno perso la libertà a causa della loro adesione volontaria al sistema ingiusto/oppressivo, la comunità offre la possibilità di uscirne rompendo così la loro condotta anteriore all’incontro con Gesù. La comunità dei discepoli di Gesù prospetta loro un’alternativa di vita nuova, e se decidono di aderirvi, la comunità li accetta ratificando così la loro rottura con la condizione precedente.
Nei confronti di quanti si rifiutano di porsi dalla parte dell’uomo e si ostinano nella loro condotta oppressiva, la comunità denuncia il loro modo perverso di operare dicendo: voi state sbagliando, siete in una situazione di peccato, di errore e fallimento radicale e totale.
I discepoli per mezzo dello Spirito che ricevono da Gesù, continuano la sua opera e sono suoi testimoni dinanzi al mondo, la loro attività deve essere manifestazione con i fatti dell’amore gratuito e generoso del Padre. Non è missione della comunità, come non lo era di Gesù, giudicare gli uomini; può solo accettarli e offrire loro l’alternativa; il giudizio della comunità, come quello di Gesù, non fa altro che constatare e confermare quello che l’uomo dà di se stesso.
Davanti a Gesù che è la luce, gli uomini devono pronunciarsi in modo positivo o negativo. Gesù crea la sua comunità come l’alternativa della salvezza; i discepoli riconoscono che l’uomo ha rotto con il peccato e desidera passare alla luce perché ha accettato il vangelo di Gesù e a queste persone la comunità dichiara cancellato il loro passato, la condizione di peccato non pesa più su di loro.
La comunità fa un’opera di mediazione rispetto a coloro che desiderano avvicinarsi a Gesù e non può cacciare fuori nessuno che le si avvicina.
L’assimilazione di Gesù, prodotta dallo Spirito, permette alla comunità di discernere l’autenticità di coloro che manifestano la propria adesione a Lui.
Esegeticamente, il termine “aphéte” (dal verbo aphiemi) che l’evangelista utilizza significa: lasciare andare, lanciare, emettere, sciogliere, lasciar cadere, mandare, ripudiare, lasciare da parte ecc. In Giovanni questo verbo che appare ben 15 volte e assume i connotati dell’esperienza della liberazione. In greco, perdonare, assolvere qualcuno dalla colpa si dice “sugginosko” -“Suggnome”. Nel testo giovanneo c’è il verbo che significa “liberare” e non perdonare.
Secondo la tradizione religiosa giudaica e non solo, il perdono lo si ottiene dopo aver fatto un determinato numero di cose: contrizione, pentimento, espiazione… Cioè il perdono deve essere meritato, conquistato.
L’evangelista, per togliere ogni connotazione religiosa e moralistica al tutto, utilizza il verbo greco che dice liberare (terminologia laica), perché il peccato non è l’infrazione ad una regola o ad una legge, ma la situazione di non-uomo che l’individuo sperimenta prima dell’incontro con Gesù, una situazione di vita sbagliata.
L’evangelista concepisce il peccato come un atteggiamento dell’individuo che personalmente ostacola il progetto vitale di Dio sull’uomo e come complice dell’ingiustizia incarnata in un sistema oppressore.
Gesù crea uno spazio umano dove al posto dell’ingiustizia regna l’amore vicendevole.
E’ la sua comunità alternativa che permette agli uomini di uscire dal sistema antiumano. La comunità dei suoi discepoli prolunga l’offerta di vita che il Padre, per mezzo di lui, dona all’umanità. Quindi è dinanzi a Gesù che l’uomo deve effettuare la sua radicale scelta e solo nell’alternativa dell’amore, attraverso la sua comunità, sarà in grado di rompere con il suo passato.
“Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”, non è un’indicazione liturgica di Gesù e dell’evangelista. Essere uniti nel nome di qualcuno, significa vivere come ha vissuto colui nel cui nome ci si incontra. I discepoli di Gesù rendono vivo e presente Gesù in mezzo a loro nel momento in cui vivono come Gesù ha vissuti, con gli stessi ideali/prassi di vita. Qui si intende l’intera comunità, non un gruppo di persone con incarichi particolari al suo interno, e tutti coloro che in ogni tempo faranno una scelta di, vita come l’ha fatta Gesù, amando i suoi fino all’estremo. Per cui avremo uomini e donne che faranno la scelta di appartenere alla comunità dei discepoli e altri che non vi avranno a che fare, ma che saranno in relazione di intimità con Gesù perché ne condivideranno la vita…
“Alitò Spirito Santo”: è il dono che il Padre per mezzo di Gesù offre ad ogni uomo e che alcuni accettano, altri no. La comunità di Gesù, accettando questo dono, diventa quella comunità umana dove gli uomini lottano perché ogni uomo possa esperimentare, qui ed ora, la liberazione, la dignità e la libertà di essere umano.
L’attualizzazione di questo messaggio sono le “Beatitudini”, gli strumenti sono il donare la vita. Il messaggio non è teologico, ma antropologico: tutti possono realizzare le beatitudini, cristiani, buddisti, atei; qualunque uomo può viverle fino in fondo e se le vive è discepolo di Gesù e Gesù è con lui, anche se non sa nulla del figlio dell’uomo di Nazareth.
Per la prima volta nel discorso fatto al corpo diplomatico Giovanni Paolo II ha detto che uno dei diritti fondamentali dell’uomo è anche quello di fare in modo che ognuno possa cambiare religione. Ma per il discorso evangelico, questo non costituisce problema; infatti uno può uscire dalla chiesa cattolica se in essa non fa l’esperienza della dignità umana, come invece vi può entrare, se fa l’esperienza della dignità umana. Sia che esca, sia che entri, nessuno deve arrogarsi il diritto dì sindacare (cfr. la parabola del Figliol prodigo dove il Padre non chiede al figlio perché va via né perché è ritornato…).
Il Capitolo 8,1-11 è stato inserito nel vangelo di Giovanni, ma non è suo, è di Luca ed è un brano che nessuna comunità ha voluto accogliere in maniera totale nel suo vangelo.
In Luca al capitolo 7, abbiamo visto un Gesù che perdona una donna (di dubbia reputazione e cioè peccatrice… prostituta) senza condizione. L’agire di Gesù è il modello dell’agire per la comunità.
Il brano giovanneo è tosto, difficile, ingarbugliato, e nessuno inizialmente lo voleva, perché la misericordia di Gesù nei confronti di questa giovane donna era ritenuta eccessiva e avrebbe rischiato di incrinare i rapporti familiari (cfr Agostino).
L’insegnamento della teologia rabbinica tradizionale era un insegnamento ripetitivo invece Gesù propone qualche cosa di diverso e di vero
, ecco perché il popolo gli va dietro e accorre per ascoltarlo. I Giudei vanno per interrogarlo, si pongono come maestri autorevoli della teologia ufficiale, il popolo va da Gesù perché il Suo insegnamento è nuovo, non tradizionale.
Gesù si sedette sulla cattedra, l’evangelista sta dicendo che è Lui il vero insegnante, la cattedra su cui si siede, sostituisce la cattedra e l’insegnamento di Mosè. Per l’evangelista e i discepoli di Gesù:”L’insegnamento di Gesù è radicalmente nuovo”. Il libro del Deuteronomio diceva che a succedere a Mosè sarebbe stato un Profeta; nella teologia tradizionale, anziché i Profeti, a succedere a Mosè, sono stati scribi e farisei.
Conducono a Gesù una donna sorpresa in adulterio, giovane, una ragazzina tra i 12 e i 14 anni. Queste donne che erano sorprese in adulterio nella prima fase del matrimonio erano lapidate, se commettevano adulterio dopo la coabitazione venivano bruciate o strangolate.
La donna commetteva adulterio e l’uomo no, perché erano gli uomini che facevano le leggi. L’adulterio per la donna sposata era ogni rapporto con un uomo, per l’uomo ebreo sposato era solo con una donna ebrea sposata, se andava con le altre non era adulterio.
Pongono a Gesù un trabocchetto, lo vogliono mettere con le spalle al muro, perché se dice di applicare la legge, tutto il popolo che correva a Lui, attirato dal nuovo modo di insegnare, sarebbe andato via e se non fosse stato d’accordo lo avrebbero eliminato.
Metterlo alla prova, sono le tentazioni: per tutta la vita Gesù è stato tentato dai suoi e dall’esterno, ma Egli si chinò e si mise a scrivere col dito per terra. Cfr. Geremia capitolo 17,13 dove il profeta scrive: “O speranza d’Israele, Signore, quanti ti abbandonano resteranno confusi; quanti si allontanano da te saranno scritti nella polvere, perché hanno abbandonato la fonte di acqua viva, il, Signore”.
La Legge di Mosè doveva essere fattore di vita per il popolo, ma scribi e farisei, cioè i capi, ne hanno fatto strumento di morte. In realtà, non è la donna che si è allontanata dalla Legge, ma sono loro che si sono allontanati dal vero senso della Legge. E poiché insistevano per interrogarlo, si alzò e disse loro:”Chi di voi è senza peccato getti per primo la pietra contro di lei “. A voler essere pignoli la frase è: “Chi è innocente tra di voi (cioè chi non ha solidarietà con il peccato- non avrà mai solidarietà col peccato) getti per primo la pietra”.
E’ l’innocenza la condizione del giudizio. Gesù sta parlando di se stesso, sta dicendo che l’unico innocente è lui, essendo gli altri peccatori non hanno il diritto di giudicare nessuno: l’unico che può giudicare è l’innocente per eccellenza, Lui.
Ma quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno guidati dai più anziani, non vecchi ma presbiteri, che erano componenti del Sinedrio e autorizzati ad amministrare la giustizia. L’autore sta dicendo: questi che erano la componente più importante del Sinedrio, la massima autorità giudiziaria in Israele, non sono abilitati ad emettere giudizi, perché non sono innocenti come il vero agnello. Quelli che in nome della legge di Dio pretendevano di giudicare gli altri, proprio questi si sono allontanati da Dio e quindi non hanno nessun diritto di emettere un giudizio, perché al Dio dell’amore che ama tutti indistintamente hanno sostituito il dio legislatore, geloso, che punisce coloro che si allontanano dalla sua Legge.
In Matteo (5, 45) quando si parla dell’amore di Dio, l’autore dice che Dio si rivolge a giusti e ingiusti, mentre Luca (6, 35) scrive che l’amore di Dio si rivolge verso gli ingrati e i malvagi. In Matteo “giusto” è colui che osserva la legge.
“Gesù si alzò e le disse: «Donna dove sono? Nessuno ti ha condannato?». Ed essa rispose: «Nessuno Signore»”. Al versetto 7 Gesù aveva detto: “Chi tra voi è innocente può scagliare la prima pietra”, ma nessuno l’ha scagliata perché l’unico innocente è Gesù e solo lui può scagliare la pietra o emettere un giudizio, ma Gesù risponde: “Neanche io ti condanno”.
Problema: visto che la Bibbia dice che donne come queste, colte in adulterio, vanno lapidate, mentre Gesù afferma esattamente il contrario, allora ciò che è scritto nella Bibbia è stato detto da Dio oppure no? Mosè dice che tutto ciò che ha scritto, gliela ha dettato Dio: è vero o no? La rivelazione dell’Antico Testamento è in linea con quello del Nuovo Testamento? E’ sempre Dio ad aver rivelato se stesso oppure no? Se Gesù dice queste cose in aperto contrasto, soprattutto con i detentori della teologia ufficiale, come la mettiamo? Qual è la rivelazione giusta? Qual è il vero volto e la vera parola di Dio? Gesù, che pretende di essere la manifestazione di Dio sulla terra, dice: “Io non ti condanno”! Se ha ragione Gesù, la legge mosaica è sbagliata? Per la legge mosaica è Dio che condanna queste donne, ma quando Dio si presenta in Gesù dice no: allora la legge è vera parola di Dio o è Dio che ha cambiato idea?
Gesù non solo non condanna, ma non mette neanche condizioni.
Solo dopo dice: “Va’ e d’ora in poi, non peccare più” che significa, d’ora in poi non tornare più a sbagliare direzione. Nel momento in cui tu incontri Gesù, la tua esistenza sbagliata viene cancellata perché rivitalizzata dal dono d’amore di Dio. Quando l’evangelista scrive: “Non peccare più”, non si sta riferendo all’ambito morale, ma alla scelta di entrare all’interno della sua comunità, per non ritornare di nuovo alla situazione di ingiustizia, di schiavitù, precedente l’incontro con Gesù. Una volta che si viene inondati dall’amore di Gesù, la vita è trasfigurata (subisce una metamorfosi) nel dono agli altri: questa è la salvezza/pienezza esistenziale. Il rifiuto a ciò significa ritornare nella condizione di prima (ecco cosa significa “non peccare più”, cioè accetta la trasfigurazione della tua esistenza).
Il Concilio di Trento ha fondato sul brano del Vangelo di Giovanni (20,19-23) il sacramento della Confessione, ma dall’analisi esegetica che noi abbiamo approfondito risulta che il sacramento come lo intendiamo oggi non può essere fondato su quelle parole.
Non a coloro cui perdonerete, ma a coloro che libererete. Il peccato per Giovanni non è una mancanza etico-morale, ma è un percorrere una via sbagliata, un appartenere ad un sistema ingiusto, battere una via che non è la via di Dio. E’ una questione esistenziale, che si vive prima dell’incontro con Gesù. Nel momento in cui avviene l’incontro, se questo cambia la vita, non si parlerà più di peccato per ciò che di sbagliato succede dopo, ma di colpe, mancanze…
La comunità deve accettare chi vuole entrare e, nell’accoglierlo, lo libera dalla situazione di ingiustizia precedentemente vissuta. Se la comunità presenta il messaggio di Gesù e la persona si oppone, la comunità imputa a coloro che si oppongono a questo messaggio il loro peccato. Questo è il significato del brano di Giovanni che emerge dalla ricerca esegetica ultima…
Gesù accetta l’uomo senza imporgli particolari atti di pentimento (ecco perché l’evangelista usa il verbo liberare). Il perdono invece richiamava una tematica di tipo religioso perché ottenuto a condizione di aver compiuto determinate azioni: sacrifici, offerte, elemosine, preghiere, digiuni.
Gesù accetta la persona, senza porre nessuna condizione, non chiedendole assolutamente nulla. ‘Un atteggiamento del genere manda in fallimento tutto quello che si era costruito nella religiosità tradizionale.
La comunità cristiana composta da ex giudei che hanno riconosciuto in Gesù il Messia, cerca di non buttare a mare tutta la propria tradizione, come ad esempio il codice di purità e di santità riportato dal libro del Levitico, per cui si fa strada, nell’ambito di queste comunità, una morale di tipo vetero-testamentario. Si farà strada soprattutto nell’esperienza monastica, che non amava molto tutto ciò che aveva a che fare, per esempio, con la sfera della sessualità, mentre nei primi secoli della chiesa, la riflessione cristiana fatta sui vangeli è di ben altra natura.
Anche, nel: Nuovo Testamento abbiamo alcuni casi particolari (prima lettera ai Corinzi, capitolo 5) dove Paolo si presenta come il capo della comunità ed esige l’obbedienza, arrogandosi il potere di cacciare dalla comunità chi non vive in un certo modo.
Nei primi 600 anni
la Chiesa, sia in Oriente che Occidente, ha conosciuto una disciplina penitenziale abbastanza uniforme e costante, le cui caratteristiche erano, ad esempio, la possibilità di remissione dei peccati nel momento in cui i cristiani ricevevano il Battesimo dopo un cammino che si chiamava “catecumenato”.
Dopo il battesimo si richiedeva loro di non svolgere determinate professioni o mestieri, per esempio: fare il maestro, perché a quel tempo si insegnava la mitologia; il pittore, lo scultore, l’attore perché rappresentavano miti pagani, ecc. Naturalmente non potevano fare il soldato, il gladiatore, il funzionario imperiale, perché dovevano “sacrificare” all’imperatore. Poche le cose che si potevano fare, tra cui il lavorare la terra, perché non c’era pericolo. Quando il cristianesimo penetrerà anche nell’esercito, i militari di carriera avranno accesso al battesimo, ma a condizione di non comportarsi a fine battaglia come i pagani e cioè usare la rappresaglia, scorribande, uccisioni, saccheggi ecc.
Nei primi secoli era opinione comune che si potessero “rimettere/assolvere” tutti i peccati commessi più volte dopo il battesimo ad eccezione dei tre peccati cosiddetti capitali: l’apostasia (abbandono della fede/religione), l’omicidio e l’adulterio. Questi peccati, erano non reiterabili: cioè se uno si faceva battezzare e poi commetteva uno di questi tre peccati, doveva iniziare un cammino penitenziale pubblico che poteva durare anche 6 o 7 anni, finito il quale veniva riammesso nella comunità, ma se commetteva nuovamente uno di questi peccati non poteva più essere riconciliato con la Chiesa.
Incorrere nell’apostasia era facile sotto le persecuzioni perché non tutti erano capaci di essere eroi. L’adulterio era sempre possibile anche perché il matrimonio non sempre era fatto per amore e l’omicidio ci poteva scappare in certe situazioni. Per questi motivi; il cammino penitenziale era fatto tutto da persone di una certa età e all’eucaristia ci si avvicinava forse una o due volte nella vita;.
Questa non reiterabilità per i tre peccati capitali andrà avanti per ben cinque secoli, soprattutto in quelle zone dove più forti erano le componenti radicali integraliste (cfr. Novazioni e Montanisti, di cui farà parte alla fine della vita anche Tertulliano).
Un’altra importante caratteristica di tutta la Chiesa era anche una certa unicità della riconciliazione ecclesiastica, nel senso che in tutte le comunità cristiane, in tutte le chiese, ci si comportava più o meno allo stesso modo.
Uno dei testi catechistici più antichi che abbiamo, la Didachè o Dottrina degli Apostoli (verso la seconda metà del primo secolo), contemporaneo alla redazione dei vangeli di Matteo e Luca, dice delle cose molto diverse da questi e anche dall’opera di Giovanni che seguirà dopo. Purtroppo, nella morale e nella spiritualità, farà più strada la Didachè che non i Vangeli. Ad esempio questo testo presenta l’esperienza della vita umana come un percorrere due vie: la via della vita e della morte, della luce e del buio (cioè i peccati che allontanano dalla via della vita). I Vangeli trattano questo tema in modo ben diverso.
Secondo precetto della dottrina della Didachè: non ucciderai, non commetterai adulterio, non corromperai i fanciulli, non commetterai fornicazione, non ruberai, non farai magie, non preparerai bevande magiche, non farai perire il bambino con l’aborto né l’ucciderai dopo che è nato, non desidererai i beni del prossimo, non sarai spergiuro, non porterai falsa testimonianza, non sarai maldicente, non serberai rancori, non sarai doppio nel pensare né nel parlare, poiché la doppiezza nel parlare è un laccio di morte, il tuo parlare non sarà menzognero né vuoto, ma pieno di azione, non sarai avaro, né rapace, né ipocrita, né maligno, né superbo, non concepirai malvagi disegni contro il tuo prossimo, non odierai nessun uomo, ma con lui userai la correzione, per gli altri pregherai, altri poi, amerai più della tua vita, fuggirai da alcuni vizi, origine di mali gravissimi.
Esortazione alla pratica della virtù: non essere iracondo né litigioso né geloso, né violento. Si costruisce così una panoramica etico-morale che prende spunto anche dal libro del Levitico e del Deuteronomio, cioè di impostazione veterotestamentaria.
Al n° 4 della Didachè, leggiamo: nell’adunanza (siamo nella parte della confessione pubblica e non privata) confesserai i tuoi peccati e non ti recherai alla preghiera in cattiva coscienza. Qui prevale il fatto di confessare il male commesso alla comunità che prenderà le iniziative per un cammino di conversione. Il discorso dei vangeli “…Se tu hai qualche cosa contro il tuo fratello…” è invece un discorso di riconciliazione col fratello.
preghiera e digiuno
In contemporanea alla redazione dei vangeli c’è una prassi che sta andando per altro verso. Al n° 8 si parla di preghiera e digiuno: i vostri digiuni non coincidano con quelli degli ipocriti (farisei), essi digiunano il 2° e il 5° giorno della settimana (lunedì e giovedì), voi invece digiunate il 4° e il 6° (mercoledì e venerdì). Anche qui è presente un travisamento totale dei vangeli, dove in nessuna parte c’è scritto che Gesù fa il digiuno religioso devozionale, né invita i suoi a farlo.
Oltre a questa testimonianza della Didachè, c’è anche quella del pastore di Erma, un testo che appartiene alla metà del secondo secolo d.C. e che parla della penitenza. La penitenza predicata dal Pastore di Erma è una penitenza universale che non esclude nessun peccato e non presenta altri limiti che la disposizione del peccatore. Ne sono esclusi solo quelli che sono volontariamente induriti nel male, la cui penitenza sarebbe solo un’ipocrisia e una nuova profanazione del nome di Dio.
A chi decide di non volersi convertire e fare penitenza, non verrà perdonato nessun peccato (inteso qui in senso etico-morale a differenza del significato evangelico precedentemente esposto). La penitenza è presentata come un mutamento della volontà che si converte a Dio e che spontaneamente si sottomette alle pene per espiare le colpe. Espiazione soddisfattoria, esattamente come nel mondo ebraico per cui si salta l’esperienza di Gesù e si ritorna all’impostazione religiosa ebraica: prima ci si pente e si ripara e poi si ottiene il perdono. Erma indica anche una tariffa per la penitenza (per un ‘ora di piacere vietato occorrono 30 giorni di penitenza…).
Tra le opere di penitenza è annoverato anche il digiuno come per il mondo ebraico: “digiunerai a pane ed acqua, ma commuterai 1a somma dei cibi risparmiati e farai l’elemosina alla vedova, all’orfano e al bisognoso; il digiuno gradito al Signore è che tu non faccia alcun male, che serva il Signore con cuore puro e osservi i suoi comandamenti”.
La penitenza produce una interiore santificazione simile a quella prodotta nel battesimo dalla infusione dello Spirito Santo. Questa tipologia di penitenza in Erma, appare come un affare tra Dio e il peccatore: la riconciliazione con Dio è certamente in primo piano, ma questa avviene nella Chiesa e per mezzo di essa.
Al n° 3 la rigorosità della espiazione imposta è richiesta come segno di vera conversione. Questo elemento che predomina e caratterizza il segno della seconda conversione, finisce per dare al termine penitenza il significato giunto fino a noi, di opera penosa di espiazione dolorosa e di riparazione. Prima era solo penitenza, dopo l’accento passa sulle opere di penitenza e alla fine ci troviamo davanti alla penitenza dolorosa e cioè dura.
Al n° 4 la penitenza è esigita per tutti i peccati considerati gravi (mortali, capitali), mentre gli altri vengono espiati con la preghiera, il digiuno e le opere di misericordia.
AI n° 5 viene presentato il rito o il cammino penitenziale in tre momenti importanti:
a) Chi voleva iniziare questo cammino, doveva, entrare in un ordine o in un gruppo di penitenti mediante la confessione della colpa fatta in pubblico, al Vescovo, con l’accettazione della penitenza impostagli durante un raduno della comunità. Con l’andare del tempo, questo rito divenne assai solenne: iniziava con l’imposizione delle mani, la consegna del cilicio e delle vesti penitenziali; i penitenti erano relegati in un luogo appartato della chiesa, generalmente in fondo e al momento dell’offertorio uscivano fuori dalla chiesa perché la partecipazione all’eucarestia era per i puri. Mentre nei vangeli è l’incontro con Gesù che rende puri, nella tradizione cristiana per fare l’incontro con Gesù bisogna purificarsi, esattamente come avveniva per entrare nel Tempio di Gerusalemme. A causa di ciò, la gente man mano si allontana dall’eucaristia (che diventa appannaggio di poche persone) e, per correre ai ripari, nell’epoca medievale nasce il rito dell’elevazione dell’ostia prima e del calice dopo: se le persone non possono avvicinarsi all’eucaristia (se non rarissimamente) perché impure almeno la possono vedere.
b) L’esecuzione della penitenza, per accedere alla riconciliazione, viene a costituire un periodo analogo a quello del catecumenato. Spesso i due periodi si equivalevano nella durata del tempo.
c) Al termine del cammino penitenziale c’era la riconciliazione solenne alla presenza della comunità con il vescovo. Il rito prevedeva l’imposizione delle mani, la preghiera e l’accesso all’eucaristia. Tale rito vede la sua origine a partire con probabilità dal 5° secolo e sembra fosse fissato al giovedì santo, mentre il battesimo era previsto al sabato santo durante la veglia pasquale.
In questa epoca i penitenti, dopo la riconciliazione e la riammissione alla vita della comunità, erano sottoposti a restrizioni e limitazioni e non potevano accedere a certi ministeri e servizi (diaconi, presbiteri, vescovi), non potevano contrarre matrimonio, accettare cariche pubbliche (in un certo senso vivevano una vita quasi monastica).
Queste caratteristiche della disciplina penitenziale primitiva ebbero come effetto, un graduale abbandono del cammino penitenziale da parte della massa dei fedeli: solo pochi vi si sottomettevano mentre la maggioranza dei cristiani peccatori differiva la penitenza al momento della morte.
Le cose incominciano a cambiare a partire dal 6° secolo.
Grazie alla diffusione sul continente europeo dell’usanza irlandese, portata soprattutto da San Colombano e Bonifacio (l’evangelizzatore della Germania), si introduce la reiterabilità della riconciliazione per tutti i tipi di peccati, compresi quelli capitali.
L’assenza di uno stato o condizione pubblica dei penitenti (non esiste più “la confraternita dei penitenti”) fa sì che la celebrazione può essere fatta anche da un presbitero e non solo del vescovo (l’apertura a tutti, anche ai chierici i quali non erano ammessi alla penitenza solenne o canonica).
Questa celebrazione, ripetibile, meno solenne, privata, chiamata confessione auricolare, incontrò da prima una disapprovazione perché violava le norme canoniche tradizionali, però ben presto i vescovi accettarono questo nuovo modo come rimedio alla situazione d’abbandono della penitenza canonica.
I teologi dell’epoca carolingia propongono la seguente norma: a peccato pubblico, penitenza pubblica; a peccato nascosto, penitenza privata. La penitenza canonica, già molto ridotta nella prassi, nella concretezza scompare rapidamente e si trasforma in parte nell’istituto canonico della scomunica. Si diffonde sempre più l’usanza della penitenza privata, ripetuta anche frequentemente che comporta sempre onerose penitenze e, nei libri penitenziali dell’epoca, è presente una tariffa per ogni cammino penitenziale, cioè per ogni peccato. ‘
La graduale riduzione delle penitenze mediante il procedimento delle sostituzioni o delle commutazioni, cioè dei pellegrinaggi penitenziali, le indulgenze ecc, viene a sottolineare il significato penitenziale della stessa accusa: per esempio ci si confessava di regola prima della comunione.
Le opere imposte per penitenza consistevano principalmente in digiuni, elemosine o lunghi viaggi in terra straniera, pellegrinaggi, flagellazione, ingressi in convento. La proibizione delle nozze che prima si applicava ai penitenti, viene soppressa dal Sinodo di Worms 868 canone 30.
Alla penitenza era dedicato specialmente il periodo della quaresima, con i suoi digiuni. Il mercoledì delle ceneri era generalmente il giorno in cui si imponeva la penitenza, il giovedì santo, quello dell’assoluzione (cfr. Sacramentario Gelasiano e Pontificale romano-germanico del sec X).
A partire dal secolo 9°
il termine che si incomincia ad usare al posto dell’antico “riconciliazione”, che fino a quel momento concludeva il cammino penitenziale, é “assoluzione”. Prima l’assoluzione veniva data al termine del cammino penitenziale, a partire dal secolo 9° l’assoluzione viene anticipata e la penitenza posticipata. Questo spostamento (prima l’assoluzione e poi la penitenza) provocò la riduzione dell’importanza delle opere di penitenza mentre aumentò il momento dell’accusa dei propri peccati.
Il prete aveva come segno della conversione del penitente, per deciderne l’assoluzione, solo la sua umile e sincera accusa. In tal modo, il nome del sacramento dalla penitenza si trasferisce all’accusa per cui si chiamerà sacramento della confessione.
Questo rito rimane nei secoli 7°-10° ed é piuttosto elaborato, ma viene celebrato individualmente dal singolo penitente, diventa un fatto personale, individuale, tra l’uomo e Dio attraverso il sacerdote e la comunità non c’entra più.
Questa nuova forma di celebrazione della penitenza, più individuale e ripetibile, in cui prevale sempre maggiormente il ruolo dell’accusa, quindi della confessione rispetto a quello delle opere penitenziali dei primi secoli, diventerà nel secolo 11° la forma normale e comune che, con qualche piccola variante, è arrivata fino a noi oggi.
Il concilio Lateranense 4° del 1215
al c. 21 la renderà obbligatoria entro l’anno per ogni cristiano che abbia gravemente peccato:
“Ogni fedele dell’uno e dell’altro sesso, giunto all’età della ragione, confessi lealmente, da solo, tutti i suoi peccati al proprio parroco almeno una volta l’anno, e adempia la penitenza che gli è stata imposta secondo le sue possibilità; riceva con riverenza, almeno a Pasqua, il sacramento dell’eucaristia, a meno che, su consiglio del proprio parroco, per un motivo ragionevole, non creda opportuno di doversene astenere per un certo tempo. Altrimenti gli sia negato l’ingresso in chiesa da vivo e la sepoltura cristiana da morto.
Questa salutare disposizione sia pubblicata frequentemente nelle chiese perché nessuno si nasconda dietro la scusa dell’ignoranza. Se qualcuno per un giusto motivo desidera confessare i propri peccati a un altro sacerdote, prima chieda ed ottenga la licenza dal proprio parroco, altrimenti l’altro non avrebbe il potere di assolverlo o di legarlo.
Il sacerdote sia discreto e prudente; come un esperto medico versi vino e olio sulle piaghe del ferito, informandosi diligentemente sulla situazione del peccatore e sulle circostanze del peccato per capire con tutta prudenza quale consiglio dare e quale rimedio applicare, diversi essendo i mezzi per guarire l’ammalato.
Si guardi assolutamente dal rivelare con parole, segni o in qualsiasi modo l’identità del peccatore; se avesse bisogno del consiglio di persona più prudente, glielo chieda con cautela senza alcun accenno alla persona: poiché chi osasse rivelare un peccato a lui manifestato nel tribunale della penitenza, decretiamo che non solo venga deposto dall’ufficio sacerdotale, ma che sia rinchiuso sotto rigida custodia in un monastero, a fare penitenza per sempre”.
E’ nato anche il segreto confessionale.
In Oriente, a partire dal secolo 8°-9°, si diffonde l’uso di una penitenza celebrata più individualmente. Le chiese orientali consideravano il sacramento della penitenza come una medicina, un rimedio spirituale, in cui svolge un ruolo molto importante la persona del confessore, la sua esperienza, il suo contatto personale. Ecco la diversità nell’interpretare il sacramento: in oriente è un aiuto medicinale, in occidente è il tribunale della penitenza.
Dopo il 7° secolo nasce la prassi penitenziale che si chiamerà “redenzione”. Consisteva nella sostituzione delle gravi pene canoniche, specialmente il lungo e duro digiuno, con opere suppletive, cioè con preghiere ed elemosine che venivano giudicate equivalenti e che si potevano eseguire con maggior facilità. Questa procedura veniva favorita dall’usanza singolare che ricchi e nobili, per sciogliere in fretta la loro penitenza, si facevano aiutare da persone estranee che facevano penitenza per loro (dietro pagamento).
Invalse così l’uso di riscattarsi dalla penitenza o da una parte di essa, mediante una somma di denaro offerta per opere pie.
I libri penitenziali ne fissarono anche le tariffe. Anche per la penitenza pubblica era possibile un riscatto pecuniario.
Viene approvata la prima volta dal sinodo di Tribur dell’895 canone 56, all’inizio si limitò ad alcuni casi particolari e plausibili e ad una piccola parte della penitenza senza recare un sensibile danno alla serietà della pia pratica, ma nel corso del tempo si lasciò alla libera volontà del penitente, assolvere la penitenza canonica o farla permutare dal confessore.
Il sinodo di Ruel del 1048, dovette proibire di inasprire o alleggerire la penitenza, in quanto il confessore per avidità di denaro poteva aumentare la cifra.
Dai secoli 11°-12°, al fianco della redenzione subentra l’indulgenza che soppianta sempre più l’aspetto della redenzione, in seguito subentra anche la scomunica.
Nel 755 un concilio franco, sotto Pipino, ordinava che chi trattava con uno scomunicato cadeva nella scomunica e chi non si sottometteva alla punizione della chiesa doveva essere esiliato dal re.
Un castigo ancor più sensibile si aggiunge alla scomunica, l’interdetto, la proibizione della celebrazione della messa pubblica, delle funzioni sacre in un dato paese o territorio,che risale al secolo 6°, ma come pena canonica vera e propria appare solo a partire dal secolo 9°.
La comunità cristiana, con questa riscoperta del dato esegetico deve fare i conti, misurarsi, perché la chiesa, prima che alle sue tradizioni, deve andare al fondamento della sua storia, al suo unico Signore e maestro, cioè a Gesù e al suo vangelo. Il vangelo interpella la comunità cristiana e Gesù per la sua Chiesa è memoria critica: richiama la Chiesa sempre a confrontarsi con la sua “bella/buona notizia”. Ciò è possibile grazie all’azione dello Spirito.
Il sacramento della riconciliazione, non più della penitenza, dovrebbe superare il rapporto individuale con Dio per recuperare il senso dell’ecclesialità.
Attualmente la dimensione ecclesiale è rappresentata dal presbitero, ma in realtà dal punto di vista sacramentale è simbolica e non esplicativa del dato evangelico. Occorre incominciare a diversificare di nuovo il peccato dalle colpe, dalle mancanze, dagli sbagli, e ripensare al dato della eticità.
Il fatto di far parte della comunità dei discepoli di Gesù non toglie l’esperienza del peccato e il sacramento della riconciliazione è una presa di coscienza dell’errore che coabita con la storia della salvezza; non bisogna dimenticare che la zizzania cresce con il grano.
Il sacramento deve evidenziare come l’amore di Dio previene e precede ogni richiesta di perdono. Nel nostro sacramento della riconciliazione, il perdono di Dio è sempre visto come conseguenza di una richiesta di un cambiamento di vita; questo sacramento della riconciliazione andrebbe effettivamente ripensato, riorganizzato, riflettuto nell’ambito del dato evangelico.
La storia ha presentato il sacramento in un certo modo, i vangeli offrivano un’altra soluzione. La soluzione ottimale è quella di far emergere nella nostra storia il dettato evangelico, che non significa riproporre la situazione sacramentale dei primi cinque secoli o del 10°-11° secolo…
Matteo (6, 13-14) alla fine del Padre Nostro scrive: “…Ma liberaci dal male. Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi, ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe”.
Questa è un’aggiunta che l’autore del vangelo di Matteo fa, perché rispetto a quello di Luca mancava di qualche cosa. Nella versione del “Pater” di Matteo si dice: “Rimetti i nostri debiti”, mentre in Luca: “Perdonaci i nostri peccati” (11, 4). Il verbo, come abbiamo già detto, non va tradotto con perdonare ma liberare/cancellare. Luca nel suo “perdonaci i nostri peccati”, ha proprio il termine “peccato” che indica anche una dimensione religiosa, un percorrere una via che non è quella di Dio. Nel “Pater” di Matteo si parla di debiti.
Matteo generalmente usa errore, colpa, sbaglio che sono termini più laici e significano: mancare, sbagliare, commettere un errore. In altri passi, Matteo ha il termine “iniquità” (7, 23; 13, 41; 23, 28; 24, 12; oppure “trasgredire” in 15, 2-3).
“Peccato” per gli evangelisti significa direzione sbagliata di vita prima di incontrare Gesù, è un termine che si riferisce al passato; errore, colpa, sbaglio, riguardano il presente e le singole mancanze nei rapporti interpersonali. Anche Matteo utilizza il termine “peccato”, ma non alla fine del Padre nostro, lo utilizza in altri contesti (1,21; 3,6; 9,2-6; 12,31; 26,28).
Il Dio che Gesù rivela (siamo alla fine del Padre nostro) è chiamato Padre perché continuamente comunica un amore vivificante nonostante gli errori e le colpe degli uomini nei suoi confronti. Il Padre infatti non li considera un’offesa a sé (cfr. Libro di Giobbe capitolo 35,6 dove si legge: “Se pecchi, che gli fai? (a Dio ovviamente) se moltiplichi i tuoi delitti, che danno gli arrechi?”) Tutte le cose di negativo che tu fai nei suoi confronti, Dio non le considera un’offesa a sé e non muta il suo amore nei tuoi confronti. In Geremia 7, 19 leggiamo: (è Dio che parla) “ma forse costoro offendono me, oracolo del Signore o non piuttosto se stessi a loro vergogna?”
Il peccato contro Dio non offende Dio ma chi lo fa e, tanto meno, questi errori e queste colpe che gli uomini commettono nei confronti di Dio. Se Egli non li considera un’offesa, tanto meno sono causa di un suo giudizio o di una sua condanna nei confronti degli uomini. Dice Paolo nella Lettera ai Romani “chi accuserà gli eletti di Dio? Dio giustifica chi condannerà? Cristo Gesù che è morto anzi che è risuscitato e sta alla destra di Dio e intercede per noi?”. Queste colpe, errori, sbagli, che gli uomini commettono nei confronti di Dio sono un limite che l’uomo pone alla propria crescita.
Nella Gaudium et Spes n.13 c’è scritto:”Il peccato è una diminuzione per l’uomo stesso impedendogli di conseguire la propria pienezza”. Non è che si offende Dio, è che non si realizza se stessi. Dio interviene non come parte offesa, ma come colui che ama sopra ogni cosa, e vuole il bene della persona; vuole che questo sbaglio vada via, perché tu possa realizzare pienamente te stesso. L’intervento di Dio è un’azione e un amore liberante e vivificante per l’uomo. Il peccato schiavizza l’uomo! Dio interviene perché l’uomo possa sperimentare di nuovo la libertà e la pienezza di sé.
Dire che il peccato è un ‘offesa a Dio fa parte della nostra tradizione, siamo cresciuti in quest’ottica. Anche all’inizio della Messa si recita il confiteor. Il Dio amore, che Gesù chiama Padre (cfr. 1 Cor 13), non si adira, non tiene conto del male ricevuto, ma tutto copre… questo Dio fa piovere sui giusti e sugli ingiusti, sugli ingrati e sui malvagi.
Pensate voi a tutta una teologia-cristologia costruita nel corso dei secoli sull’offesa e sull’ira di Dio che, incavolatosi per il peccato dell’uomo, pretende che qualcuno compia il risarcimento; l’uomo non lo può fare e allora manda il Figlio che deve soddisfare l’ira del Padre.
Tutte quelle teorie della soddisfazione penale, vicaria ecc…, quelle iconografie della bilancia dove da una parte c’è l’uomo Adamo e dall’altra Gesù che paga il prezzo, sono tutte costruite su un’ottica di un Dio arrabbiato. E’ tutta una cristologia che non ha nessun riferimento al vangelo di Gesù.
Sempre nella prima lettera ai Corinzi è presente il Dio, Padre di Gesù e di ogni uomo, che tutto copre e continua a comunicare agli uomini un amore che non viene condizionato o alterato dalle inevitabili colpe dell’uomo, ma che le cancella in maniera totale e definitiva.
L’incontro con Gesù è l’incontro dove il passato (se tu aderisci a Gesù) viene cancellato. Se tu non vi aderisci, il passato resta la tua vita.
In Michea (cfr. anche Salmo 32 e 103) Dio dice: “Scaglierò in fondo al mare tutti i vostri peccati”. Nella tradizione biblica scagliare a mare una cosa significa perderla definitivamente e buttare a mare i peccati significa dimenticarli totalmente, perché ciò che cade nel mare non è più possibile recuperarlo.
Gesù non invita gli uomini a chiedere perdono a Dio perché questo viene già concesso e senza condizioni da un Padre che nella comunicazione del suo amore non distingue tra meritevoli e non.
L’idea tradizionale/religiosa di Dio voleva che si facessero determinati gesti per ottenere il suo perdono, invece il Dio che Gesù rivela essere il Padre, comunicatore incessante di vita, vuole che ogni uomo sia suo figlio, cioè vivente come lui.
Matteo in 5, 44-48 scrive: “Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli: egli infatti fa sorgere il suo sole sui cattivi (malvagi) e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti …”.
Nella Lettera ai Romani (5, 6-8) Paolo scrive: “Infatti, mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi, nel tempo stabilito (…) Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi”.
Questo morire per noi per amore, é un amore preveniente/gratuito e non motivato dai nostri meriti bensì dai nostri bisogni, un amore che costituisce l’uomo figlio di Dio, partecipe della stessa vita del Padre. Non ci si purifica per fare l’esperienza del Padre, ma è l’incontro con il Padre che purifica e libera l’uomo.
Gesù chiede (ricordatevi il brano: “Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe” ecc.) che gli errori e le colpe degli uomini non diventino un motivo per cessare di dimostrare amore; come le mancanze degli uomini verso Dio non impediscono a Dio di continuare a manifestare il suo amore così deve essere per il discepolo di Gesù: le mancanze nei confronti dei miei simili non devono impedirmi di amare l’altro nonostante tutto e ancora più di prima.
Il condono/cancellazione delle colpe, se noi vogliamo assomigliare al Padre che ci ama e ci condona ancora prima che noi glielo chiediamo, deve essere concesso prima che venga richiesto, per evitare ogni forma di umiliazione.
L’incontro del peccatore con il Padre non è mai quello umiliante delle elencazioni delle proprie povertà, ma quello esaltante della comunicazione di vita. Il capitolo 15 di Luca, da questo punto di vista, è inequivocabile: parla della pecora che si smarrisce (nel senso che se ne va dal gregge), della dracma perduta e soprattutto del cosiddetto figliol prodigo (altro personaggio che se ne va dalla casa del padre). Il Padre del giovanotto non gli chiede perché se ne va, gli dà quello che ha chiesto senza fargli nessuna raccomandazione. Il figlio va e poi torna, lui sa il perché del suo ritorno (la fame e non il pentimento, il proprio stomaco e non l’amore per il padre), ma il Padre non gli chiede niente. Quando inizia il suo atto di dolore, il Padre lo blocca, lo abbraccia e lo reintegra nella sua situazione precedente: gli ridà la dignità di uomo e con i calzari, l’anello, il vestito, il vitello grasso, gli svela la sua condizione di figlio che per il padre non è mai venuta meno. Il giovane continuava a dire: non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. E il padre lo blocca perché: se il figlio può rinunciare al padre, il padre non potrà mai rinunciare al figlio.
Nel brano di Luca al cap. 7, quello della peccatrice che va da Gesù e gli bagna i piedi con le lacrime…, Gesù dice alla donna: “Ti sono rimessi i tuoi peccati perché molto hai amato”. Non è Gesù che glieli rimette, ma constata già il perdono avvenuto grazie all’amore; questa donna, che prima ha amato in modo sbagliato, ora, ama in modo indovinato, azzeccato, ama Gesù che accetta questo amore e constata l’avvenuto perdono. Non è l’amore per chiedere perdono, ma l’amore che si effonde rendendo reale il perdono.
Gesù non concede il perdono dopo il gesto d’amore, ma dice solo: “Questo tuo gesto evidenzia il perdono che tu hai già ottenuto prima ancora di dimostrare il tuo amore”; questa donna non va a chiedere perdono a Gesù, va da Lui a manifestargli un senso di perdono che sa già di aver ottenuto.
Ugualmente, il condono delle colpe non deve avvenire facendo pesare al colpevole il disagio della sua condizione (quanti casi di crisi di coscienza ecc… nei confessionali), ma deve essere espresso attraverso una gioiosa trasmissione di vita che lo aiuti ad uscirne.
Alla donna, che ha mostrato amore perché ha fatto l’esperienza del perdono, Gesù non chiede neanche di cambiare vita, ma le offre la possibilità della sequela nella propria comunità dove, in modo nuovo, può vivere in pienezza e in totalità il dono d’amore (Lc 8, 1-3).
E’ un incontro che deve essere gioioso, liberante, che fa riacquistare la dignità di essere figlio, in modo da gustare talmente la gioia della vita da figlio del Padre da volerla comunicare anche agli altri.
L’ingresso nella comunità deve essere la testimonianza di questa vita gioiosa; questo comportamento rende operativo ed efficace l’amore del Padre: se il Padre è colui che nei tuoi confronti comunica incessantemente vita e amore e tu nei confronti degli altri fai lo stesso, tu rendi efficace questo amore del Padre nei tuoi confronti.
Matteo 18, 23-35: “Per questo il regno dei cieli è simile ad un re che volle fare i conti con i suoi servi. Aveva cominciato a fare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva migliaia di talenti. Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. Allora quel servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: «Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa». Il padrone ebbe pietà di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò (cancellò) il debito. Appena uscito, quel servo, trovò un altro servo come lui, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: «Rendimi quello che mi devi!» Il suo compagno, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: «Abbi pazienza con me e ti renderò ciò che ti devo». Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in carcere fino a che non avesse pagato il debito. Visto quello che accadeva, gli altri servi furono molto, dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: «Servo malvagio, io ti ho condonato tutto il debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?» Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non gli avesse restituito tutto il dovuto. Così anche il Padre mio che è nei cieli farà con voi, se non perdonerete di cuore, ciascuno di voi, al vostro fratello”.
La disponibilità a condonare/cancellare le colpe “se infatti cancellerete/perdonerete” (l’evangelista usa l’aoristo, che indica una disposizione al condono stabile e definitivo), manifesta visibilmente la fedeltà a un rapporto d’amore più grande dei torti che si possono ricevere e rende simili al Padre consentendo di essere suoi figli. Il mancato perdono dell’uomo al suo simile, lo chiude alla possibilità di rendere operante in sé l’amore che il Padre gli comunica, rende cioè inutile l’amore di Dio nei suoi confronti.
Se Dio rivela continuamente il suo amore per te, nel momento in cui tu ti chiudi agli altri, rendi sterile questo amore di Dio nei tuoi confronti e blocchi la tua crescita verso la pienezza di umanità.
Risposta a una domanda. A Roma, vi erano molteplici culti: Iside, Osiride, Mitra. In relazione a Mitra, il primo elemento costruttivo a fondamento della basilica di S. Clemente è un tempietto, dedicato al culto di Mitra. Se poi leggiamo i testi di questi culti, cogliamo che per la conversione da azioni negative basta un cambiamento di facciata senza impegnare l’intero percorso di vita.
Lucio Apuleio riporta il cammino per tale conversione che è di impianto esoterico, quindi mentale, intellettuale, razionale: non mi si chiede un cambiamento esistenziale, ma solo una adesione intellettiva, poi posso vivere come credo più opportuno.
Il cristianesimo, invece, si impone come un cammino di conversione di tipo esistenziale: non solo l’adesione della mente, ma l’adesione del cuore e cioè della totalità della persona. Ecco, perché ai cristiani veniva imposto una tabella di attività proibite e l’impegno ad una certa etica di comportamento, e tenere un certo atteggiamento. A Roma circolava la voce che diceva: “Come si fa a vedere se una persona è diventata cristiana? Basta osservare se continua a frequentare il circo e le varie bettole; se non va in questi posti, allora è diventata cristiana”. Ecco l’adesione della totalità della persona.
Altra risposta. Intorno al 250 c’è una grande persecuzione ad opera dell’imperatore Decio e molti cristiani ci lasciano la pelle. Qualcuno è costretto all’esilio come Cipriano, vescovo di Cartagine, mentre altri finiscono martiri, per non cambiare idea e non rinunciare alla propria fede. Rinunciano a sacrificare all’imperatore perché per loro l’unico Dio è il Padre che è nei cieli. Per i cristiani, l’unico che ha il diritto di essere Dio è il Padre nei cieli. Ora, dire all’imperatore romano «Tu non stai nei cieli, non hai categoria divina», significava perdere la testa. Alcuni cristiani, che non si sentivano eroi da rischiare la vita, sacrificavano all’imperatore in modo esteriore ma non in coscienza e così facendo salvavano la vita.
Finisce la persecuzione e quelli che avevano salvato la vita chiedono alla comunità cristiana di poter rientrare, ma gli altri sono di parere opposto: come si fa ad accettare il ritorno di coloro che sono scesi a compromesso di fronte ai martiri e coloro che sono stati perseguitati per restare fedeli alla propria fede? A costoro viene posta la condizione di un nuovo cammino catecumenale e un nuovo battesimo. Si pone la questione della reiterabilità del battesimo. Dopo molteplici discussioni di ordine teologico e disciplinare, si arriva alla conclusione che il battesimo non è reiterabile e una volta dato resta per sempre e in più si richiede, a chi vuole rientrare, un cammino penitenziale adeguato e basta.
C’è poi sempre il problema della inculturazione/storicizzazione della salvezza che non passa sopra la testa uomini, ma si rende presente nella storia di ciascuno, dove si incontra il limite, la fragilità, l’errore…
Domanda: stando ad alcuni dati sembra che la gente si confessi meno di una volta. Alcuni vedono in questo un elemento positivo, altri negativo.
Risposta. E’ aumentato il numero delle persone che accede alla comunione senza confessarsi. Perché? Da un certo punto di vista il dato si presenta in senso evangelico perché, come abbiamo accennato precedentemente, è l’incontro con il Signore che rende puri. Probabilmente ci si confessa di meno anche perché il sacramento della riconciliazione (penitenza) fa fatica a trasmettere all’uomo d’oggi l’autentica riconciliazione con il Padre di Gesù di Nazareth.
Se noi incominciamo a ripensare il sacramento della riconciliazione all’interno del dato evangelico, per renderlo vitale con la storia contemporanea, le cose incominceranno a cambiare di sicuro. C’è stato un accenno al discorso della confessione comunitaria (celebrazione della riconciliazione comunitaria) e ad altro… Tentativi estremamente interessanti, ma resi di fatto inapplicabili. Credo che questo sacramento vada ripensato, anche perché è stato il sacramento che più è cambiato nel corso dei secoli ( e se ciò è avvenuto ci sarà evidentemente un perché).
In conclusione: per fare la comunione non occorre essere puri, ma eucaristici. Cioè: se l’eucaristia è il segno dell’amore estremo, della vita donata per amore, io posso avervi parte solo se ho intenzione di fare della mia vita un dono d’amore. Non è in gioco la purità ma l’esistenza: se io accetto il vangelo di Gesù, accetto il Padre, sono nella sua comunità e il mio passato è cancellato; se non accetto questo, tutto il mio passato diventa la mia storia attuale, mi viene imputato e mi preclude l’accesso alla comunione, anche se poi al limite, esternamente, appaio pio, religioso e tutto il resto… Se io sono eucaristico, allora ha senso l’eucaristia; in caso contrario, occorre fare i conti con ciò che scrive Paolo nella prima lettera ai Corinzi (1 Cor 11, 17-34).