“Il giardino può ancora fiorire”:
IL VENTO DELLA LIBERTÀ
a Trento, parrocchia di Canova
24 gennaio 2013
di don Angelo Casati
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Don Franco e don Marcello, chiamandomi, sapevano che, più che un intervento rigorosamente teologico senza omissioni e sbavature sul tema della libertà e del Concilio, il mio sarebbe stato un andare per fogli in disordine, dove stanno appuntati pensieri e emozioni. Nel tentativo, questo sì sognato, anche se non sarà se non in parte realizzato, nel tentativo, che penso già abbiano fatto coloro che mi hanno preceduto, di respirare con voi , per trattenerla, l’aria del Concilio. Non può essere il nostro un ricordo fermo, da nostalgici del passato.
E l’aria, se la respiriamo, poi la portiamo fuori. Permettete che parta da una notazione personale. Allora, quando fu indetto il Concilio, avevo trentun anni, ero a Busto Arsizio, sognavo! Sognavo con alcuni preti, con i ragazzi del liceo, dell’università, con i bambini del doposcuola dei cortili. Portavamo dentro la sofferenza per una chiesa ingessata. E venne un uomo di nome Giovanni, dice Turoldo in un libricino prezioso.
Quel papa e poi il concilio ci fecero sognare una chiesa che ritorna alla sorgente del vangelo, che si sveste degli orpelli e delle incrostazione del passato, che abbandona lo stile della condanna, ma assume quello dell’accoglienza, della condivisione delle gioie e dei drammi dell’umanità. Non “la chiesa e il mondo”, come sembrano ancora dire i nostri documenti, ma “la chiesa nel mondo”. Una chiesa che non definisce ma racconta. E ascolta i racconti degli altri. Una chiesa che, come il suo Signore, fa precedere la vita alle parole. Una chiesa che spegne le luci su di sé, perche si veda Gesù e la comunione tra sorelle e fratelli.
Una parte di quei sogni respira nel titolo che mi è stato affidato che parla di giardino che può ancora fiorire e di libertà, il vento della libertà. Provate a immaginare un giardino senza spirare di alito d vento, chiuso in una struttura monolitica, senza fessure, lo vedrete ingrigire, e non ci vorranno molti giorni a disseccarlo.
Ebbene l’immagine del vento non è parto di fantasie malate, neppure è parto di invenzioni nostre più o meno poetiche. L’ha usata Gesù. Ci è stata consegnata, come sapete, da Gesù. La consegna fu a un uomo nella notte, un uomo che aveva cariche all’interno del sistema religioso giudaico, uno dei capi, che rischiava di rimanere immobile in strutture religiose condizionanti, che non lo lasciavano libero di rinascere. L’uomo si chiamava Nicodemo. A Nicodemo in quella emozionante conversazione notturna Gesù diceva: “Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va: così è di chiunque è nato dallo Spirito” (Gv 3,8). Bellissimo! Pensate, se si potesse dire dei cristiani: ”Sono come il vento, non sai di dove vengono e dove vanno”. Loro inventano, secondo lo Spirito che li abita e li spinge. Mi chiedo se nella nostra vita ci sentiamo condotti, trasportati da questo vento della libertà che è dono dello Spirito, o se invece siamo fondamentalmente ligi alla osservanza delle codificazioni della legge. Chi è ligio alle codificazioni, non inventa nulla, se mai, nella sua vita, ripete, ripete i moduli già prescritti
. Gesù di coloro che sono nati dallo Spirito diceva che sono degli imprevedibili! Noi, confessiamolo, io per il primo, siamo fin troppo prevedibili. E poi lo sapete il vento dello Spirito è il vento dell’amore. E un amore che va secondo i precetti e i costumi è come un giardino senza vento, ingrigisce. Perché l’amore se è vero, inventa, ha il passo del vento.
Il messaggio della libertà, che aveva fatto scrivere a Paolo: “Voi siete stati liberati, non fatevi di nuovo imporre il giogo della schiavitù”, è stato, a mio discutibile parere –e qui don Marcello e alcuni amici avrebbero competenze che io non ho io per dirlo – è stato ben presto un po’ appannato o sospettato: se se ne parlava era per dire i pericoli, gli abusi, della libertà più che non la bellezza, la buona notizia.
“Voi, fratelli, siete stati chiamati a libertà” scrive Paolo nella lettera ai Galati (Gal 5,13). E ancora:”Cristo ci ha liberati per una vita di libertà” (Gal 5,1). Capite, una vocazione! Che vocazione hai? “Ho la vocazione alla libertà”. Una libertà che non è licenza, è libertà di servire Dio e gli altri. Ma servire nella libertà, servire nella libertà dell’amore. Pensate alla differenza tra un servizio pagato o a cui sei costretto e un servizio suggerito dall’amore.
Ma lasciatemi anche dire: la libertà ha per noi come un’icona, luminosissima, affascinante, in cui specchiarci, anche questa da contemplare e ricontemplare nel cuore, un’icona in Gesù di Nazaret.
E’ il fascino di Gesù uomo! Se ti fai lettore attento del vangelo non puoi sfuggire all’incantamento per la libertà di Gesù. Certo libertà a caro prezzo. Sfogli le pagine e resti sorpreso dalla sua libertà, sorpreso e affascinato per come reagisce davanti a ogni tentativo di imprigionamento. Da chiunque gli venga, fossero pure suo padre o sua madre, o i suoi, che cercano di “riportarlo a casa”, di ricondurlo a più miti consigli.
Là dove vige un’adorazione acritica della legge, lui scompiglia la fissità senz’anima dei codici: guarisce di sabato, tocca i lebbrosi, mangia con gente di dubbia reputazione, ha al suo seguito delle donne, si lascia profumare e ungere dalle loro mani, promette memoria futura a una peccatrice, trova ed esalta la fede nei pagani, demitizza il luogo in cui adorare, un monte o un altro, canonizza un ladro sulla croce. Gli interessa Dio, un Dio che libera, gli interessa l’uomo, l’uomo e la sua libertà.
La sua era una religiosità diversa, libera, sciolta, in movimento. La sua è la religiosità del figlio e non dello schiavo. La religiosità dello schiavo è una religiosità paralizzante: ferma la vita, la chiude. E’ la religiosità della paura, che fa di noi degli osservanti senza amore, senza invenzione, senza intensità, simili all’uomo della parabola che va e nasconde “per paura” il suo talento, a differenza degli altri due, che inventano ogni giorno strade per moltiplicarli. Gesù ha lottato, instancabile, per la libertà, la libertà da una religiosità da schiavi. E fu motivo, uno dei motivi determinanti, per decidere di toglierlo di mezzo. Non gli perdonavano la sua libertà.
Perché ho sostato a lungo – “fin troppo” direte voi – su questo? Perché poteste voi stessi constatare come lungo i secoli ci si sia purtroppo allontanati da quella religiosità libera di Gesù, del suo vangelo. E non è che la distanza, nonostante il Concilio, sia stata di molto colmata. Sì, il Concilio è stato la sfida per un ritorno alle sorgenti, riportare la chiesa al vangelo, al Gesù dei vangeli, preoccupati per troppo allontanamento, per troppa trascuratezza del vento dello Spirito, del vento della libertà. Libertà che era diventata nel frattempo una acquisizione del mondo contemporaneo.
Alcune parole del Concilio nella costituzione “Gaudium et spes”, la chiesa nel mondo contemporanei e nella dichiarazione “Dignitatis humanae”, la libertà religiosa, ma non solo in questi documenti, facevano respirare un’aria di libertà che andava a toccare, facendoli fiorire, modi di reinterpretare il rapporto con Dio, con Gesù, con il mondo contemporaneo.
E a fronte di quello che era accaduto lungo i secoli era un messaggio, direi, rivoluzionario.
Riascoltiamo alcune parole. Quelle per esempio del capitolo sedicesimo della Gaudium et spes là dove è detto che “la coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità”. Sentite: solo con Dio, al di là delle mediazioni! “Tramite la coscienza” dice il Concilio “si fa conoscere in modo mirabile quella legge che trova il suo compimento nell’amore di Dio e del prossimo. Nella fedeltà alla coscienza i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità numerosi problemi morali, che sorgono tanto nella vita privata quanto in quella sociale” Ei seguono nel capitolo diciassettesimo alcune parole importanti sulla libertà.
“I nostri contemporanei” è scritto “stimano grandemente e perseguono con ardore tale libertà, e a ragione… La vera libertà è nell’uomo un segno privilegiato dell’immagine divina”. Chi ce l’ha mai detto? Che siamo immagine di Dio per la libertà che ci abita e ci anima?
“Dio volle, infatti, lasciare l’uomo “in mano al suo consiglio” che cerchi spontaneamente il suo Creatore e giunga liberamente, aderendo a lui, alla piena e beata perfezione. Perciò la dignità dell’uomo richiede che egli agisca secondo scelte consapevoli e libere, mosso cioè e determinato da convinzioni personali, e non per un cieco impulso istintivo o per mera coazione esterna”.
Parole che trovavano eco nella dichiarazione “Dignitatis Humanae” dove al primo capitolo troviamo scritto: “Nell’età contemporanea gli esseri umani divengono sempre più consapevoli della propria dignità di persone e cresce il numero di coloro che esigono di agire di loro iniziativa, esercitando la propria responsabile libertà, mossi dalla coscienza del dovere e non pressati da misure coercitive. Parimenti, gli stessi esseri umani postulano una giuridica delimitazione del potere delle autorità pubbliche, affinché non siano troppo circoscritti i confini alla onesta libertà, tanto delle singole persone, quanto delle associazioni”.
E al capitolo secondo: “Questo Concilio Vaticano dichiara che la persona umana ha il diritto alla libertà religiosa. Il contenuto di una tale libertà è che gli esseri umani devono essere immuni dalla coercizione da parte dei singoli individui, di gruppi sociali e di qualsivoglia potere umano, così che in materia religiosa nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza né sia impedito, entro debiti limiti, di agire in conformità ad essa: privatamente o pubblicamente, in forma individuale o associata. Inoltre dichiara che il diritto alla libertà religiosa si fonda realmente sulla stessa dignità della persona umana quale l’hanno fatta conoscere la parola di Dio rivelata e la stessa ragione (2)… Questo diritto della persona umana alla libertà religiosa deve essere riconosciuto e sancito come diritto civile nell’ordinamento giuridico della società. A motivo della loro dignità, tutti gli esseri umani, in quanto sono persone, dotate cioè di ragione e di libera volontà e perciò investiti di personale responsabilità, sono dalla loro stessa natura e per obbligo morale tenuti a cercare la verità, in primo luogo quella concernente la religione. E sono pure tenuti ad aderire alla verità una volta conosciuta e ad ordinare tutta la loro vita secondo le sue esigenze. Ad un tale obbligo, però, gli esseri umani non sono in grado di soddisfare, in modo rispondente alla loro natura, se non godono della libertà psicologica e nello stesso tempo dell’immunità dalla coercizione esterna. Il diritto alla libertà religiosa non si fonda quindi su una disposizione soggettiva della persona, ma sulla sua stessa natura. Per cui il diritto ad una tale immunità perdura anche in coloro che non soddisfano l’obbligo di cercare la verità e di aderire ad essa, e il suo esercizio, qualora sia rispettato l’ordine pubblico informato a giustizia, non può essere impedito”.
Ebbene entrava con queste parole nelle pagine del Concilio e nella chiesa il vento della libertà, che inventa, stacca incrostazioni, spinge oltre, mette in movimento. Sembrava di assistere a un rivoluzione.
Ma vorrei dirvi non erano solo parole, perché forse qui è il punto: che magari queste parole le possiamo ripetere anche oggi, chiudendo però poi nella pratica le porte al vento. Era una rivoluzione, è rimasta incompiuta. La libertà, pensate, era già in quella idea di un Concilio che subito allarmò la curia romana. La libertà era già nello stile che quel papa fin dal primo giorno inaugurava, una cosa nuova. Vorrei partire da qui, dallo stile. Che è già messaggio di libertà. Qui è il punto: lo stile che tu hai dice se sei una donna, un uomo libero o no, e se lo sei, e solo se lo sei, sei anche liberante.
Noi tutti ricordiamo le parole del Papa alla sera del Concilio. Quelle sue parole cambiavano l’immagine della chiesa. Sono rimaste impigliate nell’aria, sono ancora nell’aria. È la sera dell’11 ottobre 1962. Volge al termine la giornata di apertura del Concilio Vaticano, Giovanni XXIII, inizialmente titubante, come testimonierà il suo fedele segretario, Mons. Loris Capovilla, decide di affacciarsi alla finestra dell’appartamento pontificio. Toccato dallo spettacolo della folla raccolta in Piazza San Pietro, le rivolge alcune parole, passate alla storia come il “discorso della luna”: “Cari figlioli”- dice il Papa “sento le vostre voci. La mia è una sola, ma riassume tutte le voci del mondo; e qui di fatto il mondo è rappresentato. Si direbbe che persino la luna si è affrettata stasera – osservatela in alto – a guardare questo spettacolo… Noi chiudiamo una grande giornata di pace… Sì, di pace: “Gloria a Dio, e pace agli uomini di buona volontà”… La mia persona conta niente: è un fratello che parla a voi, un fratello divenuto padre per volontà di Nostro Signore… Continuiamo dunque a volerci bene, a volerci bene così, guardandoci così nell’incontro: cogliere quello che ci unisce, lasciar da parte, se c’è, qualche cosa che ci può tenere un po’ in difficoltà… Tornando a casa, troverete i bambini. Date loro una carezza e dite: “Questa è la carezza del Papa”.
Troverete forse qualche lacrima da asciugare. Abbiate per chi soffre una parola conforto. Sappiano gli afflitti che il Papa è con i suoi figli specie nelle ore della mestizia e dell’amarezza… E poi tutti insieme ci animiamo: cantando, sospirando, piangendo, ma sempre pieni di fiducia nel Cristo che ci aiuta e che ci ascolta, continuiamo a riprendere il nostro cammino”.
Pensate, un papa che dice: “La mia persona conta niente: è un fratello che parla a voi, un fratello divenuto padre per volontà di Nostro Signore…”. Pensate, un papa, che non chiude con una benedizione – tutti gli ecclesiastici chiudono con una benedizione – ma con la buona notte. Era la chiesa nel mondo, nelle case: “Addio, figlioli. Alla benedizione aggiungo l’augurio della buona notte”.
Non l’autorità dominante che ti chiude nella paura o in una osservanza servile, un Papa che libera energie. Non la denuncia che incupisce, ma la fiducia che libera cammini. Non la chiesa che ha l’ossessione di essere assediata, e inventa cittadelle fortificate senza più vento, ma la chiesa del giardino. Senza sradicatori, ma con cercatori di vento. Nel Concilio il sogno di una Chiesa della fiducia, della libertà. Con Giovanni XXIII la Chiesa sembrava farsi vicina a tutti, amica di tutti, pronta a condividere con tutti la gioia e la fatica di vivere.
Ritorno ai gesti per dirvi che le parole della notte non gli erano scivolate via a quel Papa solo per un’emozione, erano il frutto di una convinzione profonda, che il Papa aveva ricordata, al mattino dello stesso giorno, in un discorso, cui aveva lavorato personalmente con grande impegno, fino a limarlo più volte. Si trattava del discorso che inaugurava il Concilio, che si apriva con le parole “Gaudet Mater Ecclesia” – “Gioisce la Madre Chiesa”, così iniziava. Come a dire si inizia così. Forse il discorso non ebbe l’effetto immediato di quello “della luna”. Ma ne era la premessa, l’impostazione di fondo. Parole più che mai attuali di cui avremmo un grande bisogno.
Erano da un lato un invito alla fiducia e dall’altro un “no” forte, senza risparmi, ai profeti di sventura, quelli di allora, come di ogni tempo. Disse: “Alcuni, sebbene accesi di zelo per la religione, valutano però i fatti senza sufficiente obiettività né prudente giudizio. Nelle attuali condizioni della società umana essi non sono capaci di vedere altro che rovine e guai; vanno dicendo che i nostri tempi, se si confrontano con i secoli passati, risultano del tutto peggiori… A noi sembra di dover risolutamente dissentire da codesti profeti di sventura, che annunziano il peggio quasi incombesse la fine del mondo”.
Di questo sguardo, che ha l’ottimismo dei veri credenti, voi tutti sapete quanto ce ne sia bisogno anche oggi quando la tentazione del pessimismo prende parecchi di no. La fiducia mette in cammino energie, libera energie. Capite, lontani dai pregiudizi che ci fanno schiavi, che ci immobilizzano.
Dobbiamo anche dire che il cammino della libertà non è senza ostacoli, perché non mancano uomini, anche religiosi – la storia di Gesù insegna – che hanno in sospetto la libertà. Nasce il conflitto. Occorre rompere resistenze. Lo si è sperimentato da subito nello stesso Concilio, che diviene, come evento, un racconto della chiesa e della libertà, ma contemporaneamente anche un racconto della resistenza alla libertà.
Lo si vide da subito. Si erano messe al lavoro per un anno dodici Commissioni, composte da oltre ottocento esperti, per lo più scelti dall’alto, l’esito fu di 70 documenti. Pensate, furono tutti cestinati, se ne salvò solo uno, quello sulla divina liturgia. Anche il documento sulla chiesa, preparato dai teologi della Curia romana, cestinato! Cominciava parlando della gerarchia, e dal papa si scendeva giù giù ai vescovi ai presbiteri ai religiosi e finalmente ai laici. Bocciato! La chiesa è il popolo di Dio, è una comunità in cui vive lo Spirito di Gesù, sono presenti e vivi ruoli diversi, ognuno il suo ruolo, ma per il bene comune.
Guardate che ancora non ci siamo. Quando per esempio usiamo la parola “magistero” noi che cosa pensiamo? Solo al Papa e ai vescovi. O liberiamo lo Spirito che è in ciascuno? Pensiamo che secondo la promessa di Gesù in ognuno di noi dimora lo Spirito che, sempre secondo la promessa di Gesù, ci insegna le parole di Gesù, fa magistero dentro di noi? Motivo per cui un grande papa Gregorio Magno diceva che l’ultimo dei fedeli poteva dalla parola di Dio scavare ricchezze a lui papa sconosciute. Una convinzione che guidava il magistero del Card. Martini che attingeva ad altro magistero. Pensate quanto sia no liberanti queste parole del cardinale Martini nel libro intervista che il suo confratello Georg Sporschill raccolse nel libro “Conversazioni notturne a Gerusalemme”. Pose una domanda al Cardinale: “Invece di essere lei a predicare, lei lascia che sia la gioventù a illuminarla. Un nuovo principio pastorale?”. Rispose il Cardinale: ”Nella gioventù ho trovato la più valida conferma di tale principio pastorale, sempre che di questo si tratti. Nella Chiesa nessuno è nostro oggetto, un caso o un paziente da curare, tanto meno i giovani. Perciò non ha senso sedere a tavolino e riflettere su come conquistarli o su come creare fiducia: deve essere un dono. Sono soggetti che stanno di fronte a noi, con cui cerchiamo una collaborazione e uno scambio. I giovani hanno qualcosa da dirci. Essi sono Chiesa, a prescindere dal fatto che concordino o meno con il nostro pensiero e le nostre idee o con i precetti ecclesiastici. Questo dialogo alla pari, e non da superiore a inferiore o viceversa, garantisce dinamismo alla Chiesa: In tal modo l’affannosa ricerca di risposte ai problemi dell’uomo moderno si svolge al cuore della Chiesa” (Carlo Maria Martini, Conversazioni notturne a Gerusalemme, Mondadori, 2008, pag. 47).
Vi devo confessare che a volte la sensazione che provo è di distanza, di distanza dal Gesù dei vangeli e dal suo magistero sulla libertà. “Manca il respiro” è il titolo di un libro, piccolo libro ma interessante, di Saverio Xeres e Giorgio Campanini. Non è così raro trovare ambienti e documenti dove si respira non l’aria, l’aria aperta, ma la paura o peggio ancora l’arroganza.
Ricordo che un giorno, uscendo da uno di questi incontri, in cui la sensazione era di essere stati per tutto il tempo come rinchiusi in una bolla, mi venne di scrivere:
E venendo da cenacoli chiusi
in prati d’erbe
smunte
senza refoli di vento,
l’avventura dei tuoi passi
su erbe bagnate
colorate d’ignoto
da un oltre che segna
il tuo passaggio di silenzio.
Andavi per pareti di vento.
Ed io a inseguire,
per acuto di nostalgia
il tuo
profumo di vento.
Il bisogno che oggi sentiamo è di una chiesa dove sia rispettata la libertà di pensare, di parlare e di costruire, di tutti! Dove sia venerato lo Spirito che abita ciascuno. Ma se tutto viene dall’alto l’immagine è che lo Spirito sia solo in alcuni e che la proposta altro non sia che quella dell’allineamento. Ritorna la piramide. Ricordo che, quando ancora ero parroco e mi succedeva di chiedere a dei fidanzati che non erano della parrocchia perché avessero scelto i nostri incontri, mi capitava di sentirmi dire: “Dei nostri amici hanno frequentato i vostri incontri e ci hanno detto che qui si può dire quello che si pensa!”. Ma non dovrebbe essere la cosa più normale? C’è dunque nelle stanze alte del potere, anche se non confessata, una paura della libertà. “La chiesa” ha detto il card. Martini nel suo testamento “ha paura”.
La libertà fa paura a chi sogna un potere assoluto, meglio avere vassalli obbedienti, accoliti del nulla, esecutori plaudenti, meglio una massa pilotabile e acclamante che un popolo maturo di pensanti e resistenti. Può succedere purtroppo che perfino all’interno degli spazi ecclesiali a volte la sensazione sia di vivere in un regime di libertà vigilata. Quando invece, come dicevamo prima, ci accomuna una vocazione alla libertà. Sì, una vocazione. Di tutti. “Voi, fratelli, siete stati chiamati a libertà” (Gal 5,13). Mi chiedo se quando entriamo negli spazi del vivere quotidiano, nel confronto con le donne e gli uomini del nostro tempo l’immagine che diamo è quella della libertà dello Spirito o quella di coloro che sono preoccupati di porre paletti o di disegnare recinti? Diamo una notizia buona?
Mi suonano lontane, quanto lontane, le parole che Paolo VI – e volevano essere parole profetiche – pronunciò in una udienza generale, il 9 luglio 1969. Diceva: “Il nostro tempo di cui il Concilio si fa interprete e guida, reclama libertà. Avremo un periodo nella vita della Chiesa, perciò nella vita di ogni figlio della chiesa, di maggiore libertà, cioè di minori obbligazioni legali e minori inibizioni interiori. Sarà ridotta la disciplina formale, abolita ogni arbitraria intolleranza, ogni assolutismo, sarà semplificata la legge positiva, temperato l’esercizio dell’autorità, sarà promosso il senso di quella libertà cristiana che tanto interessò la prima generazione cristiana, quando si seppe esonerata dalla legge mosaica e dalle sue complicate prescrizioni rituali”.
Commentava Enzo Bianchi. “Sono parole di un Papa, del Papa che ha chiuso il Concilio. Oggi ci paiono distanti e quasi non più ripetibili senza destare sospetti, nella nuova situazione ecclesiale che si è delineata. Sono parole di cui occorre fare memoria”. Per fedeltà al vangelo, per fedeltà al Concilio, per fedeltà alle donne e agli uomini di oggi dobbiamo prenderci cura del giardino, aprire giardini, il vostro è uno, non aspettarci la libertà dall’alto, aprire giardini dove spira il vento, il vostro è uno di questi. E là dove siamo, magari in contrasto con un’immagine dominante, mostrare che siamo in respiro del vento, donne uomini liberi. E giardini che per contagio generano giardini. Vorrei finire con un’immagine, ancora del Card. Martini che mi è stata richiamata da uno scritto di Silvia Giacomoni. Scrive Silvia: “L’ultimo giorno, arrivai a Gallarate che era morto da poco. Lo stavano vestendo. Scesi alla cappella del secondo piano dove quattro preti, che lo avevano variamente sostenuto nella malattia, celebravano una messa per quanti erano stati presenti nelle ultime ore: gli infermieri, i parenti, qualche amico. Senza alzarsi dal banco, il padre Silvano Fausti, suo confessore, fece una brevissima omelia. Raccontò che durante una passeggiata nella bergamasca avevano superato un pastore, sdraiato sul prato a guardare il cielo mentre le pecore pascolavano tranquille. Martini disse: “Lo vedi il buon pastore? Non fa nulla. Lascia che le pecore bruchino l’erba”.
Lascia che le pecore bruchino l’erba.