CAPITOLO V
Canova, 17 aprile 2009
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1. La difficile «rinascita» del movimento cattolico

Negli anni del Fascismo, al di là degli scontri tra il regime e il mondo cattolico soprattutto a causa del controllo sull’educazione della gioventù e sulla presenza nel mondo delle professioni, avvenuti, come si è già ricordato, nel 1931, che videro la chiusura di più di diecimila gruppi giovanili di Azione cattolica, si può ben dire che i cattolici che si opposero al regime non furono molti, sia per ragioni di sopravvivenza (i più), sia per questioni ideologiche (contro il bolscevismo).
Negli anni Trenta si distinsero in particolare il gruppo milanese del Movimento guelfo d’azione e quello bresciano di Comunità nuova. Al primo, costituitosi attorno a Pietro Malvestiti, Gioacchino Malavasi, Gaetano Carcano ed Enrico Falk, si deve un manifesto, diffuso tra i partecipanti al Congresso romano che celebrava il quarantesimo della Rerum novarum (1931), che denunciava il fascismo come un «ordine apparente che cela il disordine più distruttivo». Ci fu una presa di posizione contro il gruppo da parte dell’Osservatore Romano, “forse” per coprirlo contro eventuali manovre del regime (il giornale aveva parlato di “sedicenti cattolici”), e ci fu un processo cui seguirono miti condanne.
Nel 1938, in casa di Gaetano Carcano, a Milano, si radunarono alcuni vecchi appartenenti all’ala sinistra del PPI, come Achille Grandi, Luigi Meda (il figlio di Filippo), appoggiati da don Primo Mazzolari, parroco di Bozzolo, nel tentativo di riprendere le fila del movimento politico di ispirazione cattolica. A Brescia, invece, tra il 1940-1944 fu vivace l’opera di Comunità nuova, promotrice anch’essa di manifesti e opuscoli antifascisti, i cui membri si trovarono anche a combattere nella Divisione di partigiani cristiani «Tito Speri».
Per pochi mesi, tra il 1939-40, fece udire la sua voce di opposizione «Principii», un bollettino pubblicato come supplemento alla rivista Vita Cristiana dei padri domenicani di San Marco a Firenze, redatto dal professore Giorgio La Pira. Esso era una vera e propria protesta evangelica contro quanto di opprimente e di disumano avevano creato in Europa il fascismo, il nazismo e il comunismo, espressa in gran parte attraverso citazioni appropriate di Padri e Dottori della Chiesa, così da superare abilmente la censura.
Fu, però, soprattutto nell’ultimo periodo del regime fascista e in quello dell’occupazione tedesca dopo l’8 settembre 1943 che «le tendenze sociali e innovatrici del cattolicesimo italiano» si rivelarono apertamente, sia con la partecipazione alla lotta armata nella Resistenza, sia con la ricostruzione delle strutture più significative della sua attività, cioè il sindacato e il partito, nel tentativo di ridare un’anima alla ricostruzione del paese. Molti cattolici, soprattutto al Nord, si unirono agli altri combattenti della Resistenza proprio per collaborare a creare un nuovo Stato e una nuova società.
Per farcene un’idea è sufficiente scorrere la stampa clandestina, come ad es. Il Ribelle, giornale del gruppo partigiano di Teresio Olivelli che nella testata aveva il motto: Libertà, Giustizia, Solidarietà. In un suo numero (n. 5, Brescia 25 agosto 1944) si poteva leggere: «Diciamo ai patrimoni e ai redditi fuori classe (eccessivi per i tempi!) che devono abituarsi all’idea che le forti divergenze sociali ed economiche stanno tramontando inesorabilmente…».
«Ancora più caratterizzante è lo Schema di discussione sui princìpi informatori di un nuovo ordine sociale, elaborato dall’Olivelli e da Carlo Bianchi, approvato in un convegno milanese di intellettuali cristiani e pubblicato nell’organo clandestino lombardo della DC. All’inizio vi si può leggere: “Il mondo è in crisi: qualcosa nelle convulsioni del nostro tempo muore: qualcosa, con dolore e con sforzo, cerca di venire alla luce. Muore l’epoca economica, l’epoca del capitalismo che generò infinite ricchezze e infinite miserie. Un’organizzazione senz’anima permise l’indigenza più vasta, l’anarchia della produzione, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo: sfociò nel culto della violenza, nel dispotismo statale e si consuma nella guerra. Sorge la società dei lavoratori, più libera, più giusta, più solidale, più cristiana”. Anche per questi ideali sociali oltre che per la libertà della patria combattevano molti dei partigiani cristiani e le idee erano dibattute non solo attraverso la stampa clandestina, ma pure nelle discussioni che spesso movimentavano i ritrovi nei periodi di tregua» (S. Tramontin, Sinistra cattolica di ieri e di oggi, Marietti, pp. 105-106).
Negli ultimi anni del fascismo, frattanto, v’era stato un nuovo scontro con l’Azione cattolica, nel 1938, che Mussolini riteneva fosse l’ostacolo maggiore per la completa «fascistizzazione» della società italiana. Pio XII (1939-1958), il nuovo Papa, optò allora per una maggior «clericalizzazione» e per una ulteriore «diocesanizzazione» (dislocazione in periferia) dell’A.C. stessa, quasi per proteggerla contro l’esterno, lasciando tuttavia che al suo interno si conservasse la tradizione e lo spirito del popolarismo, così che da essa si potessero cogliere in seguito i quadri dirigenti e le masse dei votanti per il nuovo partito dei cattolici. Furono soprattutto le punte avanzate dell’Azione cattolica, la FUCI (nata a Fiesole nel 1896) e il Movimento laureati di AC (nato a Cagliari nel 1932) a tener viva l’idea di un nuovo ordinamento sociale, cui il Cristianesimo avrebbe fatto da motivo ispiratore.
Nei quaderni di Azione fucina di quegli anni (1940-1942 con Aldo Moro e 1943 con Giulio Andreotti) si urgeva il risveglio «della nostra coscienza di cittadini viventi e operanti nella comunità statale, che è quanto dire la nostra coscienza politica». A sua volta la rivista Studium dei laureati cattolici invitava i suoi iscritti con le parole: «Studiate, perché quando il conflitto sarà terminato e si tratterà di dare una forma alla società, ci siano delle idee cui ci si possa ispirare». Sono, poi, gli stessi laureati cattolici a organizzare le «Settimane di Camaldoli», nel tentativo di preparare i singoli ad assumere quei compiti che il futuro avrebbe riservato loro e a ricostruire quei rapporti sociali che il fascismo aveva gravemente compromesso. È da quegli incontri che nasce il cosiddetto «Codice di Camaldoli» del settembre 1943, che dettava 76 enunciati, redatti in termini sintetici e riguardanti la vita familiare (vi era compresa anche la tematica dell’educazione), la vita civile (origine della società civile, autorità e libertà), lo Stato (il campo politico, lo Stato e la Chiesa), la vita economica (le leggi economiche, l’emigrazione, la colonizzazione). Il tutto aveva anche un titolo emblematico: Per la comunità cristiana, aperto alla collaborazione di ogni persona.
È interessante in questo contesto il giudizio sul Codice di Camaldoli espresso quarant’anni dopo, nel 1985, dallo storico Silvio Tramontin, più volte citato in questo studio: «Ancor oggi – a quarant’anni di distanza – il Codice di Camaldoli viene considerato come l’espressione di “una vera e propria svolta – sul piano della dottrina economico-sociale – del movimento politico dei cattolici, perché è il momento del definitivo passaggio dalle concezioni e dalle impostazioni della scuola sociale cristiana della fine Ottocento e dei primi del Novecento a quelle ben più realistiche, che tengono conto del mutamento verificatosi con la rivoluzione industriale nell’economia in particolare e, in genere, in ogni aspetto della vita pubblica e privata.
A Camaldoli quelle teorie e impostazioni di vetero-cattolici furono abbandonate. Si ripudiò l’illusione di risolvere la questione sociale con il corporativismo o con gli istituti – pure validi, ma solamente là dove possibili – della cooperativa e della partecipazione al profitto. Tenendo anche conto dell’esperienza dell’Iri, il Codice segnalò l’adesione dei cattolici a una terza via, che può chiamarsi di economia mista, adeguata alle insopprimibili esigenze dell’età industriale.
È importante sottolineare che il Codice di Camaldoli fu il testo a cui si ispirarono i giovani democristiani della Costituente, più volte citato in commissione e in assemblea, per la stesura degli articoli economico-sociali della Costituzione. E infatti parecchi articoli del Titolo III (Rapporti economici) riflettono i princìpi del “Camaldoli”».
Accanto al Codice di Camaldoli si sviluppò ulteriormente in quegli anni di guerra, il Movimento guelfo, che aveva rappresentato, come si è visto, il primo esperimento a carattere politico sorto tra i cattolici italiani nel periodo ancora fascista. Nel 1943 esso indirizzò Agli italiani degni della libertà un programma in 12 punti con l’invito «ad unirsi sotto le bandiere del Partito democratico cristiano».
Sempre nel 1943 nacque anche il movimento dei Cristiano-sociali, fondato da Gerardo Bruni, su ispirazione del pensiero personalista di E. Mounier. Esso proponeva un cattolicesimo molto impegnato nell’ambito sociale, che fu però rifiutato da quello spirito moderato che si stava ormai diffondendo nel mondo cattolico italiano, impersonato da Alcide De Gasperi e dai suoi amici. Il movimento del Bruni respinse addirittura nel 1944 la proposta degasperiana di fusione con la Democrazia cristiana, che nel frattempo era nata, per mantenere una sua fisionomia autonoma, che trovò un punto di convergenza alla fine di quell’anno, con i Cattolici-comunisti, proponenti la collaborazione con il PCI, per sbloccare progressivamente, come si disse allora, «la prassi del cattolicesimo da una posizione di politica cattolica a una posizione di cattolicesimo e politica». (Gli uomini più rappresentativi erano Franco Rodano, Adriano Ossicini, Gabriele De Rosa).
Si mossero anche i cosiddetti «professorini» dell’Università cattolica del Sacro Cuore di Milano, raggruppati sotto il nome di «Civitas humana» dall’ottobre del ’41 al luglio del ’43, con Fanfani, Padovani, Dossetti, Lazzati, Bontadini, Sofia Vanni Rovighi, la cui idea fondamentale era quella proposta dalla cultura francese riguardante l’animazione cristiana delle strutture sociali, fondate sulla partecipazione popolare e la giustizia.
Sempre a Milano, attorno alla rivista L’Uomo, fondata nel 1943, nacque il gruppo di Mario Apollonio, Dino del Bo, Gustavo Bontadini, Davide Maria Turoldo e Camillo De Píaz, proponente il valore della persona umana. A Firenze, invece, e lo si è già visto, operava Giorgio La Pira e il suo supplemento Principii.
In quei tragici anni di guerra, tra il 1942 e il 1943 si formò nel mondo cattolico più avveduto una mentalità, una sensibilità, che avrebbe dovuto preparare la comunità italiana alla comprensione dei mutamenti radicali ormai in atto nella cultura e nella società. Si studiò la dottrina sociale della Chiesa e, tramite l’ICAS (Istituto cattolico attività sociali, nato nel 1925), si diffuse una febbrile attività di ricerca, da cui sarebbe nata la Democrazia cristiana, come lo strumento politico dei cattolici italiani.
Non esiste per la DC un atto di nascita così chiaro come si è visto per il PPI: l’appello “a tutti gli uomini liberi e forti” di don Sturzo nel 1919 non fu ripetuto in quei giorni difficili tra il 1942 e il 1943. A Roma, in casa di Giuseppe Spataro, un vecchio popolare, il 19 marzo 1943, fu divulgato tra i numerosi presenti un documento intitolato Linee di ricostruzione, che conteneva il programma ideale della DC, steso da De Gasperi, con la collaborazione dello stesso Spataro e di Gronchi. Il programma era rivolto a «quei cattolici che, appartenendo alla corrente democratico-cristiana, possano ricollegarsi all’esempio di quei popolari che per la libertà politica si batterono sino all’ultimo e, benché travolti, alla causa di essa tennero fede a prezzo di sofferenze e di proscrizione dalla vita civile».
Il 23 ottobre del 1943 la Democrazia cristiana si dotava di un organo di stampa ufficiale, Il Popolo; altre riviste clandestine diffondevano contemporaneamente le idee del nuovo partito come La Punta per i giovani e Il Segno, edito da un gruppo di professionisti che avevano deciso di aderire alla DC. Intanto prendeva vigore la riflessione su quello che avrebbe potuto rappresentare, nel periodo post-fascista, il ruolo dei cattolici nella società italiana.
„Ci si potrà qui chiedere come mai il ricostituito partito dei cattolici avesse preso il nome di Democrazia cristiana. Scriverà in seguito De Gasperi: «La liberazione dal fascismo appariva ancora molto remota e nessun partito, vecchio o nuovo, si era ancora costituito, quando nel Comitato centrale antifascista sorse l’idea di chiamarsi Democrazie unite: democrazia liberale, democrazia socialista e… che cosa potevamo essere noi, se non la democrazia cristiana?». Queste parole di De Gasperi che aprono l’opuscolo Tradizione e «ideologia» della DC, uscito a firma di Demofilo nel febbraio 1944, parrebbe risolvere la questione, ma in realtà non fu così. Antonio Segni da Sassari, Clemente Piscitelli dalla Campania, Natale Loiacono da Bari e molti altri, soprattutto nel Meridione, avrebbero voluto fosse ripreso il vecchio nome di Partito popolare, che rievocava una feconda esperienza e secondo loro una proposta ancora valida nelle sue linee fondamentali e nei suoi principii. Semmai era la proposta di Democrazia cristiana che suscitava riserve anche in chi respingeva il ritorno alla antica denominazione. Segni scriveva da Sassari: «Il nome di democrazia cristiana risveglia vecchi ricordi murrini; di popolari è chiaro che non può né vuol parlarsi. Cristiani sociali? Ma sa di… ostrogoto. La questione dei nomi ha un’importanza relativa, certo, ma sempre importante. Ripeto: obiezioni fattemi qui», cioè in Sardegna.
Ora è chiaro che De Gasperi, pur nella preoccupazione di salvaguardare la decisione democratica sul nome da dare al partito, era orientato favorevolmente per la dizione Democrazia cristiana. Lo mostrano accanto alla affermazione citata, i titoli dati ai primi abbozzi di programma Linee di ricostruzione e Idee ricostruttive della DC, anzi possiamo aggiungere che essa era condivisa pure dai coautori dei due documenti. Inizialmente però egli non faceva riferimento tanto al movimento democratico cristiano a cavallo tra Ottocento e Novecento, quanto invece ad una interpretazione cristiana della democrazia, che si confrontasse con quella interpretata dai liberali e dai socialisti. Negli scritti successivi però egli si rifarà al concetto di democrazia cristiana quale era stato ampiamente illustrato dal Toniolo ed anche a «quel movimento di idee e di fatti, sorto alla fine del secolo XIX che in Italia si chiamò prevalentemente democratico cristiano, mentre altrove, specie nei paesi austriaci, si disse cristiano sociale» (Il Popolo clandestino del 12 dicembre 1943), anche se occorre ricordare che nella tradizione storiografica cattolica si era soliti distinguere tra d.c. murriani e d.c. tonioliani, questi ultimi più moderati e soprattutto sottomessi alla gerarchia. Più esplicito nel riferimento e più convinto nell’approvazione della denominazione scelta e confermata successivamente dagli altri amici, fu nel gennaio 1944 don Luigi Sturzo, che pure nel 1919 l’aveva tenacemente respinta. «Mi sembra – scriveva a Spataro da New York – che il nome del Partito popolare è scomparso spontaneamente e che il nome originale di Democrazia cristiana che era l’ideale dei nostri anni giovanili al tempo di Leone XIII è tornato in uso. Il programma pubblicato già nel 1900 [veramente si trattava di un lapsus di Sturzo perché era comparso nei giornali nel 1899] con l’ardito motto Noi vogliamo ripetuto dodici volte, è stato conservato intatto, fertilizzato [sic] dalla Democrazia, cioè governo del popolo escludendo il dominio di una classe o di un partito o di una cricca Cristiana perché afferma i valori morali e i princìpi cristiani sui quali si deve basare ogni sana politica nazionale e internazionale».
Per Sturzo, dunque, la nuova denominazione doveva significare rigetto del classismo marxista e del totalitarismo fascista e contemporaneamente un ritorno al programma di Torino dei giovani democratici cristiani, socialmente e politicamente molto avanzato per allora e valido ancora per la ripresa della vita democratica” (AA.VV., Storia della Democrazia cristiana, pp. 41-42).
È soprattutto Alcide De Gasperi (1881-1954), l’uomo che, sia per l’esperienza passata nel Partito popolare, sia per l’acuta capacità di cogliere «l’urgenza» della situazione, riuscì a fare da tramite nel difficile passaggio sia culturale che generazionale. Già nel 1943 egli aveva offerto ai cattolici che si preparavano ad entrare in politica due originali riferimenti: La parola dei democratici cristiani e Idee ricostruttive della Democrazia cristiana, dove il politico trentino elaborava il progetto di una collaborazione costruttiva con tutte le forze della Resistenza, da lui considerata l’autentico elemento unificatore per «l’ora presente». Egli scriveva nel 1944: «Così alla vigilia della costruzione del nuovo Stato noi ci volgiamo pieni di fede al popolo italiano, con il proposito non di governarlo, ma di servirlo in spirito di giustizia e di carità, nel senso più profondo e più fraterno inculcatoci, anche recentemente, da un’augusta parola…» (in Tradizione e «ideologia» della democrazia cristiana).
Proprio Alcide De Gasperi, nel giugno del 1944, fu acclamato segretario del partito, in un momento storico particolare: il 4 giugno le truppe alleate erano entrate in Roma.
Nel frattempo, accanto al tentativo di organizzare il partito dei cattolici, quel mondo si dedicò ad una febbrile attività di aggregazione della società civile davvero impressionante. Rimandando più avanti questa analisi, qui si vuole ricordare soprattutto il ritorno dei cattolici all’attività sindacale. Il 3 giugno 1944 viene firmato il Patto di Roma, cioè il patto dell’unità sindacale, che tutti i rappresentanti delle diverse correnti operaie, comunista, socialista, democratico-cristiana, riconoscono come lo strumento più efficace per l’immane opera di ricostruzione del Paese. Rinasce così la CGIL, la Confederazione generale italiana del lavoro, indipendente dai partiti politici, per promuovere unitariamente il movimento sindacale in Italia.
Nell’attuare l’unità, i rappresentanti sindacali cattolici, sostenuti da De Gasperi, nonostante le perplessità e le riserve di alcuni ambienti ecclesiastici, erano guidati non solo dalla opportunità e dalla bontà della causa, ma anche da altre ragioni, come quella, ad esempio, di «penetrare in mezzo a masse, specialmente operaie, nelle quali più profondamente si erano radicate le concezioni marxiste per convincerle che nella dottrina e nell’azione sociale dei cattolici esse trovavano presidio meno illusorio e più aderente ai loro reali interesse». Ciò permetteva, d’altra parte, anche alla DC di avere un’influenza e un collegamento, sia pure limitato, con tutto il movimento sindacale, leaderizzato del resto dai comunisti.
C’è qui da ricordare che tale unità sarebbe entrata in crisi molto presto, già nel 1946, quando più acute si fecero le differenze riguardanti le rivendicazioni sindacali da sottoporre alla Confindustria e al governo, nei confronti delle quali la componente democristiana sosteneva che bisognava tener conto della «situazione inflazionistica» dell’economia italiana e quindi si dovevano moderare le richieste. Ciò provocò la frattura, in concomitanza anche con altre cause esterne, soprattutto di natura politica, sia internazionale, come il rincrudirsi della guerra fredda tra russi e americani, sia nazionali, come «la scissione di palazzo Barberini» con l’uscita del PSDI dal PSI (9 gennaio 1947) e la decisione di De Gasperi di chiudere con l’esperienza dei governi espressione del CLN (Comitato di liberazione nazionale), escludendo così il PCI e il PSI dalla direzione del Paese (12 maggio 1947: 4° governo De Gasperi).
Il Congresso di Firenze della CGIL (giugno ’47) al quale i comunisti inviarono il 57% dei delegati, contro il 23% dei socialisti e il 14% dei democristiani, manifestò chiaramente questa situazione.
Non è qui il luogo di ripresentare la storia delle successive scissioni che, fra l’ottobre del 1948 e il marzo del 1950, portarono attraverso successivi distacchi e riunioni alla costituzione della LCGIL, della FIL (socialdemocratica) e, infine, della CISL e della UIL. Anche in questo caso fatti di ordine internazionale cooperarono alla frattura: la schiacciante vittoria della DC alle elezioni del 18 aprile 1948, l’attentato a Togliatti del 14 luglio successivo e il drammatico sciopero generale che ne seguì e, infine, lo stesso piano Marshall con gli aiuti americani all’Italia. Nel 1950 i sindacati si aggregarono nella CGIL, nella CISL e nella UIL, cui andava aggiunta la CISNAL, espressione delle forze nazionalistiche di destra.
D’altra parte, «ad impedire un assorbimento dei cattolici da parte della CGIL ed una compenetrazione di idee marxiste, durante un convegno organizzato dall’Istituto Cattolico di Attività Sociali vennero fondate il 28 agosto dello stesso anno le Associazioni Cristiane dei lavoratori italiani (ACLI). Esse dovevano essere “l’espressione della corrente cristiana” in campo sindacale e rispondevano del resto ad una esigenza già espressa nella Quadragesimo anno, secondo la quale, accanto ai sindacati, dovevano poter esistere organizzazioni che ne curassero la parte morale e spirituale. In realtà l’attività delle ACLI abbracciava un campo vastissimo: formazione religiosa, istruzione professionale, assistenza sociale attraverso i patronati, attività ricreativa (circoli, bar, cinema, ecc.). E a tutti i livelli nazionale, regionale, provinciale, parrocchiale, aziendale esse erano garantite dalla presenza di un sacerdote quale assistente ecclesiastico in modo da costituire un vero retroterra non solo ideologico, ma anche organizzativo, sul quale fondare la consistenza della corrente sindacale cristiana e dal quale eventualmente prendere le mosse per creare una nuova forza sindacale qualora in seno alla CGIL si fosse scatenata un’offensiva socialcomunista contro gli iscritti di ispirazione cristiana» (S. Tramontin, Sinistra cattolica, cit., p. 111).

2. Un mondo cattolico compatto (o quasi):
gerarchia ecclesiastica, azione cattolica e partito, una «triplice rotaia» nazionale

È un tema immenso quello che viene qui introdotto, senza alcuna pretesa di completezza, che mette in evidenza l’intersecarsi strettissimo dei rapporti all’interno del mondo cattolico italiano, con al vertice la gerarchia ecclesiastica (vaticana e nazionale), con il suo braccio esecutivo costituito dall’Azione cattolica, diffusa capillarmente sul territorio, e con la rappresentanza politica della Democrazia cristiana, a sua volta debitrice quanto al personale e alla propaganda all’Azione cattolica e non raramente selezionata nei suoi uomini (o donne) dalla stessa gerarchia ecclesiastica.
Un mondo cattolico monolitico (o quasi), una vera macchina di potere, coinvolgente istituzione ecclesiastica e laicato, diocesi e parrocchie e circoli di Azione cattolica e sedi del partito, legati insieme dagli stessi ideali e dagli stessi interessi, in una profonda commistione tra fede e politica, tra testimonianza cristiana e potere, senza dubbi, senza precauzioni evangeliche, senza alcuna «riserva escatologica», con le conseguenze che oggi sono sotto gli occhi di tutti!

a) Quanto alla gerarchia ecclesiastica si può ben dire che il suo intervento nella vita politica italiana fu realmente pesante e massiccio. All’inizio, paradossalmente, per rendere difficile la nascita della DC: essa, infatti, nacque fra l’aperto distacco della curia romana e il dissenso di chi sperava in soluzioni di tipo autoritario, che garantissero fedeltà ai «princìpi cristiani».
È certo che, a differenza del Partito popolare, la DC venne guardata inizialmente con apprensione e diffidenza (si pensi alle difficoltà incontrate da De Gasperi nel difendere la sovranità dello Stato moderno e laico nei confronti dello stesso Pio XII) e solo gradatamente venne riconosciuta come partito cristiano. Abbandonata infatti rapidamente l’ipotesi di un pluralismo di movimenti politici di ispirazione cristiana, respinta decisamente la «mano tesa» avanzata da Togliatti in un discorso pronunciato a Roma nel luglio del 1944, che il padre Lombardi sulla «Civiltà cattolica» definì «mano tesa minacciosa», condannato nel luglio del 1944 il partito dei Cattolici Comunisti, restava solo alla DC il compito di attuare una visione cristiana della società. Questo monopolio, se assicurava al partito il prezioso appoggio delle parrocchie, riserva inesauribile di voti, era pagato con il frequente intervento della gerarchia nelle scelte anche strettamente politiche della DC. (Si può ricordare qui, come acme di questa situazione, l’«operazione Sturzo» del 1952, con le pressioni vaticane per una lista unica in funzione anticomunista in occasione delle elezioni amministrative di Roma, favorite soprattutto da Luigi Gedda, capo dei «baschi verdi» – i Comitati civici – che già avevano operato nel 1948, fallita in extremis per le condizioni precise poste dal sacerdote siciliano, cioè in definitiva per il suo cauto temporeggiare).
E il discorso non si limitava al campo propriamente politico, ma anche culturale, con la proibizione di leggere Maritain (Umanesimo integrale), con la censura a Teilhard de Chardin, a don Mazzolari, a don Milani, allo stesso Giorgio La Pira, a don Saltini di Nomadelfia, a padre Turoldo, a Nazareno Fabretti, Diego Fabbri e molti altri. È in questo contesto di chiusura e conformismo cattolico che don Primo Mazzolari pubblica su Adesso, fondato dopo il 1948, la seguente, splendida perorazione:
«Il cristiano può avere (tutte) le indegnità; ma se rifiuta il duro di adesso tradisce il Vangelo, se se ne appropria l’utile, tradisce il Vangelo.
L’adesso è la Croce che va portata se uno vuol tener dietro a Cristo.
Dio può attendere: l’uomo no. Può darsi che egli abbia soltanto questo momento di suo, da cui dipende la sua salvezza o il suo perdimento.
Tra i cristiani, sia al governo che negli altri campi, in politica o in religione, sono troppi i prudenti.
Rischiamo di morire di prudenza in un mondo che non vuole e non può più attendere.
La carità dev’essere paziente per ciò che ci riguarda, impaziente per ciò che riguarda il prossimo.
Adesso, non domani.
Adesso è un atto di coraggio. Un uomo d’onore non lascia agli altri la pesante eredità dei suoi adesso traditi.
Non tradire quegli impegni era per loro espressione, sia pur rischiosa, di un Cristianesimo profondamente vissuto» (S. Tramontin, Sinistra cattolica, cit., p. 176).
Compaiono, nello scritto di Mazzolari, già chiari i problemi tanto dibattuti in quegli anni, soprattutto legati alla ricerca di un corretto rapporto tra religione e politica. Scrive Pietro Scoppola:
«Abbiamo visto negli anni della rinascita della democrazia tutte le forze cattoliche, da quelle per natura loro chiamate ad operare sul terreno politico a quelle invece istituzionalmente orientate verso un’azione di formazione o di apostolato religioso, schierarsi in prima linea sul fronte della politica, impegnarsi a fondo nelle competizioni elettorali; e con le organizzazioni cattoliche è stato il clero stesso a impegnarsi in favore del partito dei cattolici e contro i suoi avversari. Esigenza certo imposta dall’asprezza della lotta, dalla forza degli avversari, dall’incalcolabile importanza dei valori in gioco, ma che ha comportato pure, necessariamente, dei grossi costi.
Innanzi tutto per la religione stessa e per la Chiesa: la religiosità del popolo italiano, se è consentita l’espressione, si è politicizzata, la religione e la Chiesa si sono in qualche modo legate a un partito e sono entrate con tutto il peso della loro influenza nella competizione politica ed elettorale. Il peso dell’apparato organizzativo necessario alle competizioni elettorali ha mortificato e talvolta sacrificato lo spirito: l’esigenza dell’unità nel momento della lotta e in considerazione del pericolo ha frenato ogni tentativo di revisione di metodi e di idee, ogni ripensamento critico della funzione delle organizzazioni cattoliche.
Ancor più questa politicizzazione ha nociuto alla maturazione culturale dei cattolici italiani. La cultura non si adatta a distorsioni strumentali, non tollera l’irreggimentazione organizzativa, si intisichisce e muore quando non le sia lasciato lo spazio necessario e una sostanziale libertà. E non si può dire che le organizzazioni cattoliche, da quelle che agiscono sul piano politico a quelle che agiscono sul piano religioso, abbiano, almeno nel primo decennio del dopoguerra, favorito una libera espansione di cultura, abbiano contribuito nel loro ambito a formare strumenti di espressione culturale; tutto quanto in questo campo si è fatto ha risposto assai più alle esigenze propagandistiche dei singoli movimenti che a quelle profonde ed essenziali dell’arricchimento culturale dei cattolici italiani.
Infine, il necessario allineamento di tutti i cattolici sullo stesso fronte, se ha dato indubbiamente forza al partito e ha contribuito potentemente al suo successo, ha ostacolato d’altra parte la sua qualificazione precisa in ordine ai maggiori problemi del Paese, obbligandolo a mediare fra le aspirazioni contrastanti di un elettorato vastissimo ed indeterminato. In una situazione così complessa e difficile il grande merito di De Gasperi è stato quello di aver resistito, sostenuto in ciò da altre forze politiche, alla spinta fortissima del mondo cattolico verso la formazione di un indiscriminato fronte anticomunista e aver cercato, attraverso la formula del centrismo, di dare il massimo contenuto politico ad una lotta che rischiava ogni giorno di trasformarsi in guerra di religione» (P. Scoppola, op. cit., pp. 191-192).

b) Quanto all’Azione cattolica abbiamo già potuto cogliere, nelle riflessioni precedenti, il suo ruolo crescente, a partire dal pontificato di Benedetto XV (1914-1922) e soprattutto durante il periodo fascista, per il mondo cattolico italiano. Lo stesso Pio XII (1939-1958) l’aveva difesa all’inizio del suo pontificato, in un periodo di rinnovato sforzo di “fascistizzazione” della società italiana. Ora, subito dopo la liberazione di Roma, nel giugno del 1944, venne organizzato un convegno per preparare l’A.C. ai «nuovi gravissimi compiti» e per «esaminare le prospettive di apostolato per il prossimo domani». La struttura di massa, che essa aveva conservato fin dagli anni del fascismo, le consentiva ormai di aprire nuove prospettive, confermando il proprio immediato ruolo di formazione della mentalità popolare. Il rilancio dell’A.C., subito dopo la liberazione di Roma, fu guidato con discrezione da Monsignor Montini, allora stretto collaboratore di Pio XII alla Segreteria di Stato.
Aspetto centrale della riorganizzazione fu la scelta di dar vita, a lato dell’Azione Cattolica, a molteplici associazioni specializzate, che fossero in grado di aiutare gli aderenti di A.C. ad affrontare con maggior competenza i vari aspetti della società pluralista. Nacquero le Unioni professionali (per citarne alcune: U.G.C.I., giuristi cattolici; U.C.I.D., imprenditori dirigenti; U.C.S.I., stampa cattolica; U.C.A.I., artisti cattolici; U.C.I.I.M., insegnanti medi; A.I.M.C., maestri cattolici; A.C.E.C., esercenti cinema; ecc. ecc.) e molte altre iniziative come il C.I.F. (Centro italiano femminile), l’A.S.C.I. (Scouts) e l’A.G.I. (Guide), la G.S. (Gioventù studentesca) e la G.I.O.C. (Gioventù operaia).
L’A.C. aveva quasi due milioni di iscritti nel 1943, che divennero 3 milioni e mezzo verso la fine degli anni Quaranta. Si capisce allora perché dopo il 1944 essa divenne anche l’ambito preferenziale di sostegno e di raccolta per il partito della Democrazia cristiana. Soprattutto a livello locale, il passaggio delle forze avveniva con naturalezza, anche per l’abitudine monolitica incrementata nel ventennio fascista. Lo sforzo educativo degli anni precedenti si chiudeva quindi con il compimento anche della dimensione pubblica e la ricostruzione del Paese poteva contare su una generazione di militanti di indubbia statura e coerenza morale, anche se non tutti di sofisticata cultura.
D’altra parte, come scrive Guido Formigoni nel suo prezioso libro L’Azione cattolica italiana (Ancora, 1988, pp. 83-84): „l’atteggiamento cattolico di fronte alla democrazia era comunque tutt’altro che scontato e unanime, affacciandosi al dopoguerra. Ciò in primo luogo dal punto di vista teorico, dato che le acquisizioni di Pio XII nel radiomessaggio natalizio del 1944 – che giungevano ad affermare la superiorità morale del regime democratico sulle altre forme di governo – erano molto recenti, e andavano ancora maturate e approfondite. Ma anche dal punto di vista del progetto concreto maturato nell’ambito delle gerarchie ecclesiali nei confronti della situazione italiana, gli appelli di Pio XII all’azione erano impregiudicati. Essi ispiravano in larghe fasce della cattolicità italiana posizioni antimoderne e confessionaliste, sospettose nei confronti della democrazia e del pluralismo, per i rischi che essi avrebbero presentato per i valori cristiani, sottoposti alla concorrenza di altre proposte in un contesto indifferente. Inoltre appariva chiaro che l’antagonista più consistente del disegno di ricristianizzazione della società era in quella fase il mondo comunista, temuto fortemente sotto il profilo ideologico, ancorché poco conosciuto direttamente sul piano concreto.
Oltre ad ambienti importanti della curia romana, e ai gesuiti della prestigiosa Civiltà cattolica, vari settori nell’A.C. stessa si muovevano in quest’ottica: vanno ricordati la Gioventù di Gedda, poi guidata da Carlo Carretto, gli Uomini, che con il 1946 passarono sotto la direzione di Gedda stesso, in parte i rami femminili. La loro prima preoccupazione era quindi garantire a una forza organizzata come l’associazione ufficiale del laicato cattolico uno spazio di diretta influenza nella fase della Ricostruzione, soprattutto tramite la proposta di un ‘ordine sociale cristiano’ i cui punti forti erano quelli tradizionali intorno al ruolo della Chiesa, della famiglia, dei valori morali. Buona parte del nuovo sforzo formativo popolare intrapreso fra guerra e dopoguerra dall’A.C. si orientò infatti verso la diffusione di idee ‘sociali’, su cui esisteva un solido retroterra, anche magisteriale. Tale disegno spesso metteva invece complessivamente in secondo piano una matura scelta politica, fino a quando non fu condotto, dall’approfondimento della radicale spaccatura apertasi sulla scena del Paese, a immedesimarsi con la DC in un unico fronte cattolico”.
Nella sua compattezza, comunque, il mondo cattolico offriva un punto di riferimento in un tempo di grave incertezza per l’avvenire e di drammatica situazione del presente.
Per quel che riguarda ancora l’Azione Cattolica va ricordato che il primo presidente fu Vittorino Veronese (fino al 1952), per il quale l’impegno dell’associazione doveva essere quello di promuovere la formazione spirituale di nuclei omogenei di laici, da impegnarsi poi in campo sociale e politico per la conservazione e la difesa dell’assetto democratico dello Stato. L’A.C. chiedeva il mantenimento del Concordato, gli effetti civili del matrimonio religioso, l’indissolubilità del matrimonio, la libertà della scuola cattolica; e per la politica il dovere civico del voto e l’unità politica dei cattolici. Poi, dal 1952, presidente dell’A.C. fu Luigi Gedda (1901-2000) che promosse ulteriormente la mobilitazione politica dei cattolici, accentuando le tendenze al centralismo organizzativo e all’attivismo, in concordanza con gli orientamenti del Vaticano, portando la stessa A.C. ad essere quasi l’organizzazione subordinata dei Comitati civici da lui fondati per la promozione politica della DC, piuttosto che lo strumento di formazione spirituale e religiosa del laicato cattolico. Ciò avrebbe portato, poco dopo, all’esplosione di contrasti interni, come quelli che si concluderanno con l’estromissione dalla presidenza della Gioventù italiana di A.C. di Carlo Carretto nel 1952 e di Mario V. Rossi nel 1954 («i giorni dell’onnipotenza», li avrebbe chiamati proprio il Rossi), contrasti determinati, rispettivamente, dal rifiuto dell’alleanza di centro-destra per il Comune di Roma (l’«operazione Sturzo») e dall’insistenza con la quale si perseguiva l’impegno politico, invece di quello formativo.
Parallele all’A.C. erano, poi, le altre associazioni cattoliche, cui si è fatto un breve accenno appena sopra. Vale la pena qui solo di ricordare le ACLI per il mondo del lavoro (come si è riferito precedentemente); la Coldiretti per il mondo rurale (con il Club 3P: provare, produrre, progredire; la Federconsorzi e la Federmutue. Si ricordi che nel 1963 essa coinvolgeva 1.885.540 famiglie, con più di 8 milioni di associati, di cui l’82% votava DC); la C.C.I. (Confederazione cooperativa italiana) erede del movimento cooperativo (con 1.800.000 soci e 8.500 imprese, con l’Italcasse, attraverso cui la DC sosteneva l’attività economica dei ceti medi e l’Iccrea per altri finanziamenti). Non va dimenticato il ruolo delle «donne cattoliche», coinvolte nell’A.C., nella Gioventù femminile, nel CIF, che poi confluivano nel Movimento femminile democristiano, organo di scarso peso dentro il partito almeno se si guarda alla sua rappresentanza politica nel corso del tempo. Negli anni ’50 circa 7 milioni di donne vota-
vano DC.
Anche nel settore scolastico la presenza cattolica si sviluppò a diversi livelli in forma articolata, con la rete delle scuole confessionali, con le associazioni di maestri (l’AIMC nel 1946) e professori (UCIIM, 1944). Più difficile fu la penetrazione nell’Università, soprattutto fra gli insegnanti. Per gli studenti la FUCI (nata nel 1896) svolse invece un ruolo molto importante.
Per l’assistenza nascono le POA (Pontificia opera di assistenza), l’ODA (per le assistenti sociali), l’Onarmo (per la pastorale del lavoro) e le varie Pie Unioni…
Per la stampa si diffondono 120 settimanali diocesani (con scarso senso critico e di autonomia), la Famiglia cristiana (nata nel 1931), la stampa devozionale. Per la RAI la DC dà l’indirizzo politico, l’IRI la gestione economica.
Non vanno dimenticate le grandi manifestazioni religiose: l’Anno santo 1950, la Madonna Pellegrina, padre Lombardi e «la crociata della bontà». Nel 1958 nasce la Conferenza episcopale italiana (la CEI); nel 1959 si ribadisce la scomunica a chi vota comunista (voluta nel 1949 da Pio XII); nel 1960 si lotta contro l’apertura a sinistra ipotizzata da Aldo Moro (il card. Ottaviani chiama quei cattolici «comunistelli da sagristia»). Ma ormai si andava verso il Concilio e con esso verso una nuova stagione culturale e politica sia per la Chiesa che per la società civile e politica italiana.

3. Il ruolo innovatore del Concilio Vaticano II

È senz’altro decisivo sotto molti profili in una storia dei cattolici italiani e del loro contributo all’Italia rifarsi a quell’evento centrale che fu il Concilio Vaticano II (1962-1965). Esso segnò infatti una cesura rilevante anche nella storia del cattolicesimo italiano, che giungeva a questo appuntamento con un’esperienza quasi secolare di stretto legame con l’istituzione ecclesiastica e, quindi, di una certa dipendenza (anche nell’ambito sociale e politico) dalla gerarchia ecclesiastica.
Da un punto di vista immediato, il mondo cattolico italiano giungeva all’appuntamento conciliare in una condizione di ambivalenza:

a) nell’ambito più strettamente «religioso», l’Azione cattolica aveva raggiunto il suo apogeo organizzativo proprio alla fine degli anni Cinquanta (anche se molti dubitavano della spontaneità di tutte le numerosissime adesioni) con quasi quattro milioni di iscritti, ma i segnali di tensione interna e le difficoltà pastorali diventavano inquietanti, senza, peraltro, che ci fosse il coraggio da parte del gruppo dirigente di A.C. di fare una riflessione approfondita di essi;

b) nell’ambito più ampiamente «politico», il partito della DC usciva da una situazione di grave disagio interno, corrispondente al tentativo, da una parte, di coinvolgere il PSI nella maggioranza di governo (l’ipotesi del «centro-sinistra») e, dall’altra, di bloccare qualsiasi apertura a sinistra della vita politica italiana, tentativo quest’ultimo, che avrebbe portato il presidente della Repubblica di allora, Giovanni Gronchi, a dare a Fernando Tambroni l’in-carico di formare il nuovo governo nel giugno del 1960, con il sostegno esterno annunciato del MSI.

C’è qui da ricordare che il 18 maggio 1960 sull’Osservatore Romano era comparso un articolo intitolato «Punti fermi», in cui si dichiarava inammissibile la collaborazione tra i cattolici e i «movimenti che adottano e seguono l’ideologia marxista e le sue applicazioni».
Ma il «nuovo» papa Giovanni XXIII (1958-1963) non aveva manifestato particolare interessamento né per l’associazione «religiosa» dei cattolici, limitandosi a ribadire in pubblico una serie di concezioni abbastanza tradizionali, anche se collegate alla richiesta di uno stile di serenità e discrezione, né per «il partito» dei cattolici, volendosi «tenere distinto dalle commistioni di carattere politico, di qualunque genere e gradazione» (Giornale dell’anima, p. 326).
Proprio nel campo della politica i riflessi immediati di questo clima si avvertirono subito in Italia. È in questo clima che si matura e si realizza la svolta a sinistra. «Certamente in questo nuovo indirizzo politico influirono diversi fattori: la debolezza parlamentare della coalizione di centro, che dopo il 1958 raccoglieva solo il 51,8% dei voti, l’insanabile divisione sulla linea economica da seguire, la speranza di allargare l’area democratica, distaccando i socialisti dai comunisti, la convinzione della necessità di più audaci riforme sociali, il cambiamento che si era verificato nella politica internazionale (morte di Stalin nel 1953; ascesa di Kruscev, segretario del partito nel 1955; l’elezione di Kennedy nel novembre del 1960)» (G. Martina, La Chiesa in Italia negli ultimi trent’anni, Studium, Roma, 1977, p. 81). Giovanni XXIII, dal canto suo, voleva distinguere con maggior chiarezza la Chiesa da tutte le forze politiche, e nello stesso tempo sentiva l’impulso irresistibile di andare incontro a tutti, specie ai diseredati, nutriva fiducia nell’uomo, era alieno da quel complesso di stato d’assedio che aveva tormentato i pontificati di Pio IX, di Pio X e, in parte, di Pio XII.
È ben vero che nella Pacem in terris dell’aprile del 1963, egli ribadiva che l’ultimo giudizio della praticabilità della collaborazione tra forze diverse spettava sempre alla gerarchia, ma ormai l’apertura era compiuta e gli uomini più preparati della DC di quel momento ne colsero tutto il significato positivo. «Aldo Moro, nel discorso del 27 gennaio 1962 al congresso DC di Napoli, chiariva in modo ineccepibile i motivi e il fine dell’autonomia politica dei cattolici. La DC, osservava Moro, traeva la sua ispirazione dai princìpi cristiani, ma questi andavano attuati sul piano concreto, storico, nella misura e nei modi che le circostanze rendono necessari e, ovviamente, con una certa gradualità. Questo implicava la collaborazione di partiti di ispirazione diversa (le famose “convergenze parallele”) e tale alleanza non significava per nulla un tradimento dell’ispirazione originaria, dato che si trattava solo di un’intesa operativa su problemi concreti, tattici, immediati. A chi spettava decidere se era necessaria o opportuna quella collaborazione sul piano politico? Al laicato cattolico» (G. Martina, op. cit., pp. 83-84).
Sul piano religioso-politico si realizzava per la prima volta in Italia quanto era accaduto da tempo in Belgio fin dall’immediato dopoguerra, con la collaborazione tra cattolici e socialisti o, se vogliamo risalire ancora più indietro, quanto era accaduto, sempre in Belgio, fin dal 1830 con la collaborazione tra cattolici e liberali, forza politica allora progressista che si potrebbe in modo generico chiamare di «sinistra». Quella collaborazione, respinta con fermezza in Italia nel 1922 da Pio XI, che bloccò così una delle poche vie d’uscita dal vicolo cieco che portava al fascismo (un possibile governo cattolici-socialisti presieduto da Filippo Meda), si attuava ora nel nostro Paese. Era il superamento ufficiale e definitivo – per quanto possa esserci qualcosa di definitivo nella storia – dello «storico steccato» che De Gasperi aveva tanto deprecato. La gerarchia non si opponeva più alla collaborazione con forze politiche ispirate a ideologie diverse. Era riconosciuta, almeno di fatto, l’autonomia dei cattolici sul piano temporale.
Molto più rilevante, ovviamente, per la storia della Chiesa universale e per la storia della Chiesa italiana fu la «celebrazione» del Concilio Vaticano II, che pose fine dell’epoca post-tridentina e aprì un nuovo corso nella storia della Chiesa, che non rifiutava il passato, ma lo integrava e lo perfezionava, adattandolo alla continua evoluzione dell’umanità. Esso segnava di fatto nuovi indirizzi dogmatici, disciplinari, pastorali.
Non potendo qui, ovviamente, seguire i dati più significativi del Concilio, si può almeno ricordare che:
– emerge una nuova concezione della rivelazione, che è sempre vitale, personale, storica (i «segni dei tempi»);
– emerge una nuova concezione della Chiesa (popolo di Dio, tutta ministeriale, povera e solidale, «esperta di umanità»);
– emerge una nuova fiducia nell’uomo (il rispetto per la libertà di coscienza, l’autonomia del temporale, un rinnovato rapporto Chiesa-mondo).

Per la nostra ricerca sono soprattutto due i documenti significativi, che possiamo appena citare: l’Apostolicam actuositatem sull’apostolato dei laici e la Gaudium et Spes, per il rinnovato rapporto Chiesa-mondo anche nel campo politico (cfr. nn. 36, 63, 67, 73, 74, 75, 76).
Cambiava un mondo, quello ecclesiale, ma anche quello civile e politico. Cambiava una cultura, quella dell’ossequio, della sottomissione, dell’obbedienza supina alle direttive centralistiche. Si faceva strada sempre di più il processo di laicizzazione della società italiana, con l’estendersi del fenomeno della secolarizzazione ormai ininvertibile. Il Concilio aveva dato ai cattolici una traccia per dialogare con questo «nuovo» mondo. Per i cattolici la sfida era ormai aperta… ma con quali esiti? Il nostro tempo cerca ancora una risposta!

I cattolici trentini nel secondo dopoguerra (1943-1965)

Abbiamo riferito nel quarto contributo della piccola storia del movimento cattolico italiano, le vicende più significative della nostra terra trentina nel periodo della guerra, fino alla occupazione tedesca del 1943-1945 e la costituzione dell’Alpenvorland di Franz Hofer, il «commissario supremo» del regime nazista in regione.
Al momento della liberazione, nell’aprile del 1945, con la ripresa degli spazi e della dinamica democratica, che avevano come protagonista a livello nazionale lo stesso Alcide De Gasperi, i cattolici trentini «svilupparono da subito l’enorme potenziale di consenso e di operatività che, seppur congelato, era stato tenuto vivo nel loro capillare associazionismo lungo tutto il ventennio fascista» (S. Vareschi, op. cit., vol. 6°, p. 304). Il 7 maggio del 1945, nella sede dell’AUCT (Associazione universitaria cattolica trentina) venne fondata la Democrazia Cristiana e nello stesso tempo si riorganizzarono i vari partiti storici, che con i cattolici avevano fatto parte del CLN (Comitato di liberazione nazionale) trentino. La DC si dette un giornale, «Il Popolo Trentino» (poi l’Adige), diretto da Flaminio Piccoli il quale, con altri «giovani» democristiani, con alcuni vecchi «popolari» e poche donne, diventò il leader del nuovo cattolicesimo associativo e politico del Trentino. Accompagnarono questi uomini e queste donne alcuni sacerdoti come don Oreste Rauzi, don Giuseppe Lona, don Vittorio Pisoni, don Alfonso Cesconi; in posizione più defilata rimase don Giulio Delugan, il direttore di «Vita Tren-tina».
Al di là delle grandi vittorie elettorali della DC nel 1946 per la Costituente e per il Referendum Costituzionale (la DC ebbe 3 rappresentanti su 4 nella Costituente e l’85% dei votanti per la Repubblica!) e nel 1948 (la DC ottenne nel collegio di Trento il 71,91% dei voti), i cattolici trentini avviarono in tempi rapidissimi una enorme massa di iniziative sia nel campo strettamente ecclesiale, sia in quello sociale e politico e «con la forza dei numeri, con gli strumenti del consenso popolare, essi si introdussero e “occuparono” le istituzioni in maniera ancora più sistematica e capillare che nell’epoca di Celestino Endrici» (ivi, p. 305). Anche dopo la seconda guerra, infatti, entrò in azione quel sistema a «tripla rotaia», come l’aveva chiamato Alcide De Gasperi all’inizio del Novecento, costituito dall’Azione cattolica, dal Partito e dalle opere economico-sociali (il sistema cooperativo), che aveva per decenni – pur con le difficoltà denunciate del periodo fascista – guidato il Trentino. La differenza, se mai, andava riscontrata nel fatto che molte iniziative non nascevano più in loco, ma erano indicate direttamente dal centro nazionale, sia ecclesiastico che politico. Il centralismo partitico e dell’A.C. si faceva sentire con forza anche nella periferia dell’Italia repubblicana.
Anche in Trentino «il serbatoio di alimentazione tanto delle iniziative pastorali come di quelle sociali e politiche del mondo cattolico era l’Azione Cattolica» (ivi, p. 306). Durante il periodo fascista, come si è visto, essa era stata il fulcro (unico, in realtà) di tutte le attività, che il mondo cattolico poteva espletare, senza trovare troppi intoppi da parte del regime. Anzi l’A.C., anche come possibile «resistenza» ad esso, era perfino aumentata numericamente e si era diffusa in tutti i paesi della diocesi, soprattutto nella sua parte italiana. «All’indomani della guerra essa fu immediatamente operativa e il suo ruolo lungo tutti gli anni Cinquanta fu assolutamente centrale, sostenuta in ciò dalla Santa Sede e dal vescovo de Ferrari, che ne aveva fatto da subito una delle priorità dichiarate della sua azione pastorale» (ivi, p. 306).
Nel 1945 i tesserati nei quattro «rami» classici di Uomini, Donne, Gioventù Maschile e Gioventù Femminile erano 48.767 unità; nel 1957 erano ormai 63.254, il che voleva dire più di un decimo di tutti i battezzati della diocesi (compresa la parte altoatesina) e più del 25% della popolazione femminile giovane e adulta della parte italiana della diocesi. «Negli anni ’50 l’A.C. fu movimento e istituzione, vertice e base, nodo che raccordava l’ecclesiale e il sociale, l’ideologia e la politica, la propaganda e la devozione. Non da ultimo essa provvedeva anche al rastrellamento delle risorse economiche» (ivi, p. 306).
I presidenti laici, di nomina vescovile, furono rispettivamente Tullio Calliari (dal 1946 al 1952), Flaminio Piccoli (dal 1952 al 1957) e Lino Vettori (dal 1957…). Delegato vescovile invece, dal 1946 al 1961, fu mons. Alfonso Cesconi che fu, con i presidenti diocesani, il punto di riferimento dell’associazione.
Si deve pensare che, soprattutto in periferia, nei piccoli paesi, l’A.C. era «tutto»: le sue donne e i suoi uomini avevano le principali responsabilità della comunità locale, erano i favoriti alle cariche pubbliche, venivano reclutati in ogni occasione per la propaganda, mettendo al margine coloro che avevano altri intendimenti, altra sensibilità civile e politica. (Era davvero un confronto impari tra «noi» e «gli altri»). Tutto il decennio degli anni Cinquanta è segnato in Trentino da una sorta di spirito di «onnipotenza», che il mondo cattolico esprime attraverso la sua «occupazione» della vita sociale e politica.
Certo, non mancano contrasti anche forti, ma essi sono tutti interni a quel mondo, come nel caso, divenuto famoso, dello scontro tra l’Azione cattolica centrale, guidata da Luigi Gedda, e la giunta diocesana trentina guidata da mons. Cesconi e da Flaminio Piccoli. Questi ultimi, nel 1954, avevano accusato la potentissima centrale nazionale dell’A.C. di voler rafforzare ad oltranza i Comitati civici nati nel 1948 per dar forza all’azione politica dei cattolici e, addirittura, di guardare con «scetticismo verso il regime democratico», con simpatie aperte verso la destra. Cesconi e Piccoli vennero momentaneamente espulsi dall’A.C. e ci volle la paziente opera del vescovo de Ferrari per riconciliare le parti in contrasto.
Dal canto suo l’Azione cattolica trentina visse gli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, fino al Concilio Vaticano II, in un contesto di attività diffusa e frenetica. La presidenza diocesana promoveva la sua attività attraverso una serie di «Segretariati»: quello per l’attività religiosa, per la formazione spirituale; quello per la famiglia, per la difesa dell’istituto famigliare; quello per lo spettacolo, con la COFAS, l’ufficio cinema, il cineforum; quello per la stampa, per sostenere la stampa cattolica: l’Adige, Vita Trentina, l’Avve-nire d’Italia.
Si promossero «Campagne», «Crociate», «Basi missionarie», come quelle per la moralità, per il «Gran ritorno» di socialisti e comunisti alla Chiesa e a Dio; si moltiplicarono «Gare di dottrina», «Scuole di apostolato»…
Sorsero, a fianco dell’A.C., molte associazioni professionali: la FUCI per gli universitari cattolici, l’AIMC per i maestri, l’UCIIM per gli insegnanti medi e quelle per i giuristi cattolici, per gli imprenditori e i dirigenti cattolici, per gli artisti cattolici… Nacque in questi anni la Scuola di preparazione sociale per la formazione morale, ideologica e tecnica degli amministratori locali. Come nel resto d’Italia anche in Trentino alla fine della guerra furono fondate le ACLI, si diffuse la Coldiretti, si promosse la CISL.
Tutto, poi, convergeva, nei momenti «topici« delle scadenze elettorali, a dare il proprio contributo all’«unità politica dei cattolici» nel partito della DC: un’enorme macchina, insieme religiosa, sociale, politica, compatta, decisa, uniforme, senza grandi tentennamenti e senza significativi dissensi.
A tutto questo diventava funzionale anche la formazione del clero, numerosissimo dopo la guerra, e degli alunni del Collegio Arcivescovile, che «doveva fornire» il personale qualificato per dare continuità al progetto cattolico in diocesi e in provincia di Trento.
Per questo è interessante quanto scrive don Severino Vareschi: «Tutto questo impegno della Chiesa trentina rimaneva essenzialmente entro un’ottica tradizionale e di cristianità, che, se pur si sapeva e si dichiarava minacciata dalla modernità e dall’incipiente benessere, rimaneva l’unica forma accreditata in loco di presenza della Chiesa nel mondo. Erano pochi i sacerdoti e laici trentini che negli anni Cinquanta, senza lasciarsi abbagliare dallo straordinario volume di realizzazioni che il cattolicesimo locale esibiva, sapevano guardare avanti o coltivavano, come don Giulio Delugan, gli spunti teologico-pastorali che venivano elaborati oltralpe in Germania e in Francia. Le riflessioni di un Romano Guardini e di un Jacques Maritain erano cose da circoli quasi “esoterici” o da singoli personaggi, come don Onorio Spada, don Livio Botteri, don Mario Bebber, don Diego Zorzi e qualche altro della nuova leva di docenti del seminario teologico che si erano formati al Collegio Germanico di Roma» (S. Vareschi, op. cit., p. 312).
Con l’inizio degli anni Sessanta la situazione andò complicandosi anche in Trentino. Urgeva ormai il tema della modernizzazione, che portava con sé la necessità di aperture non solo sociali ed economiche, ma anche culturali. Divenne spinosa la questione dell’Alto Adige, con i «fuochi» del 1961 e la richiesta urgente di un nuovo statuto di autonomia. Venne fondato a Trento l’Istituto superiore di scienze sociali per volontà di Bruno Kessler, nuovo presidente della Giunta Provinciale.
Il mondo cattolico si trovò di fronte anche le novità che venivano dal fronte ecclesiastico: nel 1961 la Santa Sede nominò mons. Giuseppe Gargitter amministratore apostolico della diocesi di Trento a causa della malattia di Carlo de Ferrari. Fu un fulmine a ciel sereno, che spiazzò l’establishment clericale e politico locale, portando alla ribalta uomini «nuovi» come don Bruno Vielmetti e don Iginio Rogger, «vicari» di mons. Gargitter. In realtà finiva un’epoca e per il Trentino finiva anche un modo di fare Chiesa, di fare politica, di agire secondo schemi consolidati e ritenuti indeformabili. Costò caro quell’evento al mondo cattolico trentino e a tutt’oggi certe ferite causate da quel momento cruciale non sono state ancora rimarginate.
È in questo contesto che si apre, per la Chiesa universale, il Concilio Vaticano II (1962-65), che per Trento significò anche la nomina del nuovo vescovo nella persona di Alessandro Maria Gottardi (1912-2001).
Proprio il Concilio Vaticano II, cui il vescovo di Trento partecipò con grande entusiasmo e con attenta sensibilità pastorale, doveva diventare il punto di riferimento fondamentale per una nuova epoca del movimento cattolico trentino e per la sua «gloriosa» storia. Una cosa è certa: per chi ha vissuto intensamente quegli anni, con animo libero e con spirito attento, non può essere facile assistere al tentativo in atto di stendere un velo di oblio e di dimenticanza sul grandioso tentativo messo in atto dal Concilio di dare un nuovo slancio al dialogo costruttivo tra fede e storia, tra Chiesa e mondo, tra cultura dell’uomo e la Parola sempre nuova di Dio.

OPERE GENERALI

1. O.G. VECCHIO, D. SARESELLA, P. TRIONFINI: Storia dell’Italia contemporanea. Dalla crisi del Fascismo
alla crisi della Repubblica, Monduzzi, Bologna, 1999.
2. S. LANARO: Storia del’Italia repubblicana. Dalla fine della guerra agli anni Novanta, Marsilio, Padova, 1992.
3. P. SCOPPOLA: La Repubblica dei partiti. Profilo storico della democrazia in Italia (1945-1990), Il Mulino,
Bologna, 1992.
4. C. VALLAURI: Alle radici della politica italiana. La formazione delle oligarchie. Le origini della crisi,
Gangemi, Roma, 1996.

OPERE sul «mondo cattolico» in Italia

1. A.C. JEMOLO: Chiesa e Stato in Italia, dalla unificazione ai nostri giorni, Ed. PBE.
2. S. TRAMONTIN: Un secolo di storia della Chiesa: da Leone XIII al Vaticano II, Studium (2 voll.).
3. S. TRAMONTIN: Carità o giustizia? Idee ed esperienze dei cattolici sociali italiani dell’800, Ed. Marietti,
Torino.
4. S. TRAMONTIN: Sinistra cattolica di ieri e di oggi, Ed. Marietti, Torino.
5. P. BELLU: I cattolici alle urne, Ed. Della Torre.
6. F. MALGERI: La Chiesa e la guerra (1940-45), Ed. Studium.
7. F. MALGERI: Luigi Sturzo, Ed. Paoline.
8. P. SCOPPOLA: Dal Neoguelfismo alla D.C., Ed. Studium.
9. MARIO BELLARDINELLI: Movimento cattolico e questione comunale dopo l’unità, Ed. Studium.
10. F. FONZI: I cattolici e la società italiana dopo l’unità, Ed. Studium.
11. G. FORMIGONI: L’azione cattolica italiana, Ed. Ancora.
12. G. MARTINA: La Chiesa in Italia negli ultimi 30 anni (1945-1975), Ed. Studium.
13. G. MARTINA: La Chiesa nell’età del Totalitarismo, Ed. Morcelliana.
14. M. GUASCO: Chiesa e cattolicesimo in Italia (1945-2000), Ed. EDB.
15. S. MAGISTER: Chiesa extraparlamentare, L’Ancora del Mediterraneo.
16. M. GUASCO: Il Modernismo in Italia, Ed. Paoline.
17. L. BEDESCHI: L’antimodernismo in Italia, Ed. Paoline.
18. A. D’ANGELO: De Gasperi, le Destre e «L’operazione Sturzo», Ed. Studium.
19. GABRIELE DE ROSA: La crisi dello stato liberale in Italia, Ed. Studium.
20. E. ARNOULX – DE PIREY: De Gasperi, il volto cristiano della politica, Ed. Paoline.