3° incontro
Canova, 14 marzo 2008
don Marcello Farina
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1) I primi conflitti con l’autorità politica
La storia della prima comunità cristiana non è soltanto una storia «ab intra», a partire da sé stessa e dal suo “difficile” sviluppo, ma è anche una storia «ab extra», condizionata dal mondo esterno, cioè dalla situazione storica concreta in cui il vangelo viene annunciato: da una politica particolare (l’impero romano), da una cultura particolare (l’ellenismo), da un’eredità di credenze e tradizioni (il giudaismo). Non esiste un Cristianesimo senza storia e una Chiesa che non si sia “formata” a partire, oltre che dall’annuncio evangelico, anche dalle condizioni storiche di un determinato periodo della vicenda delle donne e degli uomini sulla terra.
Uno dei primi problemi della Chiesa «ab extra» diventa perciò quello dell’assunzione, da parte dei cristiani, di un atteggiamento più preciso nei confronti dell’autorità politica. Se nei primi decenni della vita della Chiesa era diffusa l’idea di una «parusìa» imminente, l’allontanarsi dell’idea della fine metteva necessariamente i cristiani di fronte al problema con la politica romana.
Su questo terreno i discepoli di Gesù avevano in effetti una indicazione fonda-mentale del maestro: il famoso «Date a Cesare…», cioè la risposta che Gesù aveva dato ai suoi avversari sulla questione del tributo. Si trattava del tributum capitis, la tassa personale (testatico) che dopo la riduzione della Giudea a provincia romana nel 6 d.C. ogni abitante della regione doveva pagare all’imperatore in segno di sottomissione. Pagandola si poteva passare per collaborazionisti dei romani, snobbandola si poteva apparire come sovversivi alla stregua di Giuda il Galileo.
Il problema era religioso e politico insieme. In gioco c’era, infatti, la “signoria di Dio”, cioè la possibilità che accanto a Dio ci fossero dei “padroni” mortali. Per questo vengono mandati a Gesù i farisei e gli erodiani, che erano i gelosi custodi dei doveri religiosi e politici.
Ma qual è il senso esatto della risposta di Gesù? Di solito la si spiega come una distinzione di principio tra politica e religione, tra Stato e Chiesa, una sorta di affermazione di “neutralità”: a Cesare le cose di Cesare, a Dio le cose di Dio. In realtà questa spiegazione non è del tutto errata, ma nemmeno del tutto esatta. Gesù non è interessato a risolvere la questione di principio dei rapporti tra politica e religione o dei doveri del credente rispetto al potere, ma la questione concreta del pagamento del tributo. Per questo egli dice: «Quel che è di Cesare datelo (pure) a Cesare, e (= ma) quel che è di Dio datelo a Dio». Il tributo lo si dia pure a Cesare, purché vengano rispettati i diritti di Dio. E i diritti di Dio riguardano l’uomo e il suo destino di salvezza. È questo il passaggio fondamentale: tributi e imposte spettano a Cesare, ma l’uomo appartiene soltanto a Dio. Onore quindi a Cesare in quanto Cesare, ma venerazione soltanto a Dio. Questa non è semplice “neutralità”, ma il rifiuto drastico della teocrazia giudaica e romana, e più precisamente una recisa «secolarizzazione» dell’autorità politica e una altrettanto recisa «spiritualizzazione» della signoria di Dio. Il potere dell’imperatore non ha alcun carattere sacro e, nello stesso tempo, la venuta del Regno di Dio non porta con sé il dover prendere le armi contro i “padroni” romani da parte dei Giudei.
Questa affermazione resterà a base di tutto il successivo pensiero cristiano sul potere politico, anche se già con Paolo di Tarso, riceverà ulteriori e importanti sviluppi.
In lui, infatti, sono visibili due atteggiamenti apparentemente contraddittori nei confronti del potere imperiale romano, che esprimono in realtà il carattere paradossale della nuova religione:
– da un lato c’è l’affermazione della lealtà dei cristiani nei confronti del potere politico: «Ogni persona si sottometta alle autorità superiori…» (Romani 13, 1-7 e 1 Pietro 2, 13-17 di chiara intonazione paolina). Per Paolo bisogna obbedire, anzi “sottomettersi” alle autorità, perché tutte le autorità che esistono sono ordinate da Dio, cioè fanno parte di un “ordine” voluto da Dio. Chiaramente il suo intento è quello di trovare un fondamento “teologico” al potere politico, per contrastare una possibile “deriva anarchica” dei cristiani;
– dall’altra c’è l’affermazione che la libertà del cristiano non gli è data dalla partecipazione alla vita politica, dalla sua cittadinanza terrena, ma dall’appartenenza al Cristo Signore e quindi dalla sua cittadinanza celeste. È l’affermazione di Filippesi 3, 20: «La nostra cittadinanza è però nei cieli…».
Tutte le successive forme di «obiezione di coscienza» dei cristiani nei confronti dell’impero romano trovano qui il loro vero fondamento. Quell’affermazione è allora fondamentale per capire i motivi profondi delle persecuzioni imperiali contro i cristiani, a cominciare da quelle di Nerone e di Domiziano.
C’è subito da dire che nei primi trent’anni di storia del Cristianesimo non ci sono ostilità da parte del potere imperiale. La persecuzione scoppia improvvisamente con Nerone nel 64 d.C., il quale, come racconta Tacito (XV libro degli Annali) fece condannare a morte un gran numero di cristiani, accusandoli di essere gli autori dell’incendio di Roma. Lo stesso narra Svetonio nella Vita di Nerone.
Ma perché proprio loro? Certo non erano responsabili dell’incendio, come fa chiaramente intendere Tacito nella sua opera. Tuttavia egli annota che i cristiani erano odiati per i crimini che si attribuivano loro e, in particolare, per l’odio per il genere umano, cioè il loro tentativo di isolarsi dalla società imperiale, il loro estraniarsi dalla vita pubblica.
Più difficile è l’interpretazione della persecuzione di Domiziano del 95 d.C. Probabilmente, più che contro i cristiani, egli la scatenò contro tutti gli oppositori del regime imperiale, coinvolgendovi anche alcuni cristiani, tra cui Flavia Domitilla, donna influente a corte e la sua famiglia.
A partire, poi, dall’inizio del secondo secolo dopo Cristo sembra delinearsi una prima forma di reazione organica del pensiero pagano nei confronti del Cristianesimo. Non ci sono soltanto le accuse infamanti di un’opinione pubblica rozza e poco informata che stravolge i dati della fede cristiana (i rapporti “edipici” e le cene “tiestee”), ma le voci degli uomini più rappresentativi dell’epoca a levarsi contro i cristiani.
Le critiche di questi autori contro la nuova religione sono sostanzialmente di due tipi:
a) quelle di carattere filosofico religioso e
b) di carattere religioso-sociale.
Le prime sono sollevate da Epitteto, Luciano di Samosàta e dal medico-filosofo Galeno. Tutti e tre questi autori criticano i cristiani per il loro atteggiamento nei confronti della morte: per Epitteto l’atteggiamento dei cristiani di fronte alla morte-martirio è dettato dall’incoscienza (come per i bambini e i pazzi); per Luciano di Samosàta “questi sciagurati credono di essere immortali, perciò disprezzano la morte e le vanno incontro volentieri”; per Galeno, che pure apprezza la vita morale dei cristiani, la critica trova giustificazione per il fatto che essi più che sulla ragione fondano le loro scelte sulla credulità, non sulla saggezza.
Le seconde sono, invece, sollevate da Plinio il Giovane, da Tacito e da Sveto-nio.
Plinio il Giovane, governatore in Bitinia, scrive a Traiano nel 112 per chiedergli come deve comportarsi di fronte al numero crescente di denunce che gli vengono presentate nei confronti dei cristiani. Non avendo mai preso parte a un processo contro di loro, egli non sa per quale reato e con quale pena debbano essere puniti. Ma si dice sicuro che con un’accorta politica il contagio possa essere fermato.
Tacito, lo abbiamo già notato, è convinto che il coinvolgimento dei cristiani nell’incendio di Roma è solo strumentale, tuttavia ritiene che essi siano meritevoli di una punizione esemplare.
Svetonio, più semplicemente, ricorda che Nerone ha mandato al supplizio i cri-stiani.
Ma quali sono i loro giudizi sui cristiani? Tutti e tre giudicano il Cristianesimo «superstizione» (“superstitionem pravam, immodicam”: Plinio; “exitiabilis supersti-tio”: Tacito; “genus hominum superstitionis novae ac maleficae”: Svetonio). Per loro il Cristianesimo è una religione straniera, e per di più orientale, che ha il carattere eccessivo, fanatico di tutte le religioni orientali. I cristiani rivelano una mancanza di ragionevolezza e di moderazione, una forma di ostinazione, di fanatismo; essi addirittura mostrano odio nei confronti di tutto il resto della popolazione, forse si dedicano anche ad arti magiche e la loro tradizione è del tutto infondata, senza radici.
Se queste sono state le accuse infamanti sia da parte “filosofico-religiosa” che da parte “religioso-sociale”, resta però da analizzare quale sia stato il fondamento giuridico delle persecuzioni, cioè il “che cosa” abbia reso “illecito” il Cristianesimo. Ci sono in questo contesto tre interpretazioni, con tre ipotesi:
a) l’esistenza di una Legge speciale che proibiva l’esercizio della religione cristiana, un generale «non licet esse christianos», come ricorda Tertulliano, che parla di un «istitutum neronianum» contro i cristiani;
b) l’ordinamento penale generale romano, che puniva crimini e reati co-muni, di cui erano accusati gli stessi cristiani, processati e condannati per questo e non perché cristiani;
c) l’esistenza di un potere di coercizione dei governatori romani per tene-re a bada le province. Non quindi una legge, né speciale, né ordinaria, ma misure amministrative per mantenere l’ordine pubblico, messo in pericolo dal rifiuto dei cristiani di riconoscere la religio romana e la majestas imperiale.
Probabilmente una risposta è possibile tenendo conto di tutte e tre le ipotesi presentate.
«I cristiani erano oggetto senza dubbio di una forte animosità da parte della opi-nione pubblica romana. Il loro allontanamento dalla tradizione dei padri, il loro disprezzo degli dèi romani e il loro rifiuto del culto imperiale apparivano infatti come un’apostasia della res publica e non poteva quindi essere tollerata. Con questi atteggiamenti i cristiani si mostravano infatti, come dice Tertulliano, “nemici dello Stato” (“hostes rei publicae”). Abbandono del mos maiorum, rifiuto degli dèi nazionali e disprezzo dell’autorità imperiale erano quindi colpe implicite nell’essere cristiani, in qualche modo dunque flagitia cohaerentia nomini (come dice Plinio), dei quali l’opinione pubblica reclamava la condanna» (G. Iossa, op. cit., p. 86).
2) La «difesa» dei cristiani
I cristiani conoscono dunque negli anni di Traiano e Adriano (98-138) e ancora in quelli di Antonino Pio (138-161) un periodo di gravi difficoltà, anche se la repres-sione più dura si avrà al tempo di Marco Aurelio (161-181).
Essi, tuttavia, sentono ormai il bisogno di confrontarsi con la civiltà romano-ellenistica, cercando di difendersi dalle accuse più gravi che vengono loro mosse e fornendo un’esposizione sintetica del proprio modo di vivere e delle proprie convin-zioni. È da qui che nasce la Letteratura apologetica greca e latina, a partire dal periodo detto comunemente dei Padri apostolici. Ciò che informa queste opere è la preoccupazione di natura liturgica, morale e disciplinare, che ci permette di conoscere lo sviluppo del pensiero cristiano in quest’epoca.
I primi testi di notevole interesse sono:
«La Didachè, scritta probabilmente verso la fine del primo secolo, fornisce per esempio notizie preziose sulle prime celebrazioni liturgiche (sull’eucaristia in particolare) delle comunità siro-palestinesi, sulla ispirazione squisitamente giudaica della loro vita morale (le cosiddette “due vie” di comportamento umano e su taluni aspetti singolari della loro organizzazione interna (la presenza perdurante di profeti itineranti).
La 1 Lettera di Clemente ai Corinzi, scritta dal “vescovo” di Roma subito dopo la “persecuzione” di Domiziano per ricondurre la comunità di Corinto alla “pace” (eiréne) e alla “concordia” (homónoia), è testimonianza significativa di un primo emergere della chiesa di Roma tra le chiese dell’epoca e di una prima penetrazione di elementi stoici nel pensiero cristiano.
Le lettere di Ignazio, scritte dal vescovo di Antiochia durante il viaggio che lo potava a Roma per subirvi il martirio, ci fanno conoscere la presenza nelle chiese dell’Asia minore (e forse anche in quella di Antiochia) di cristiani che negano la passione e risurrezione di Cristo (i cosiddetti “doceti”) e ci rivelano una struttura gerarchica di queste chiese che è già costituita di vescovi, presbìteri e diaconi.
La Lettera di Barnaba, probabilmente dell’epoca di Adriano (130 circa) e secondo alcuni (ma è tutt’altro che certo) di origine alessandrina, è il primo tentativo di definire l’identità del Cristianesimo attraverso una interpretazione polemica del giudaismo che è una decisa presa di distanza dalle sue istituzioni e dalla sua interpretazione.
E il Pastore di Erma, scritto a Roma probabilmente sotto Antonino Pio, ha un notevole interesse sia perché testimonia una ripresa di modelli apocalittici della tradizione giudaica, prima di quella del movimento montanista negli anni Settanta, sia perché contiene un invito pressante alla comunità di Roma perché faccia una seconda (e ultima) penitenza, dopo quella del battesimo. Ma nel complesso quella dei Padri apostolici è una letteratura minore, senza alcuna pretesa culturale e senza alcuna preoccupazione letteraria» (Ivi, p. 90).
Con i Padri apologisti, poi, la situazione muta radicalmente. Costoro, cristiani di una discreta formazione culturale, non si rivolgono più soltanto ai fratelli nella fede per ammonire, esortare, istruire, ma si confrontano con il mondo pagano, sia per difendere i cristiani dalle accuse più pericolose, sia per esporre gli aspetti principali della nuova religione. E gli apologisti perseguono naturalmente questo duplice scopo in maniera diversa, secondo la diversa formazione e la diversa sensibilità di ciascuno.
In generale si può dire che i padri greci (Aristide, Giustino, Taziano, Atenagora, Teofilo) sono più attenti agli aspetti culturali del confronto, mentre gli scrittori latini sono molto più sensibili agli aspetti politici e giuridici della questione cristiana.
Non è necessario qui, per la nostra ricerca, ricordare le singole figure dei diversi apologisti in maniera approfondita, ma segnalare, invece, alcuni aspetti caratteristici della loro riflessione.
Per esempio l’Apologia di Aristide non è altro che una lunga polemica contro la divinizzazione degli elementi della natura e contro le credenze politeiste dei pagani. I cristiani diventano per lui un “terzo popolo” tra greci e giudei.
Ben altra tempra ha Giustino, il palestinese che arriva al Cristianesimo dopo un lungo itinerario intellettuale tra stoici, peripatetici, pitagorici e platonici. Il Cristianesimo è per lui il compimento della filosofia greca, il punto di arrivo di una lunga storia dell’umanità. Esso partecipa in maniera eminente al «Logos» ed è perciò una religione squisitamente razionale.
Ma proprio un suo discepolo, Taziano nel suo Discorso ai greci, condanna senza riserve il mondo filosofico classico, dichiarando che in esso tutto gronda di immoralità e contraddizione. Una cosa, però, va sottolineata: ormai il dialogo è incominciato da parte dei cristiani con la cultura dell’epoca, così da preparare quel grande fenomeno che sarà poi l’inculturazione del Cristianesimo attraverso la Patristica classica.
Ma, oltre al contatto col mondo ellenistico greco-romano, il Cristianesimo deve fare i conti nel secondo secolo ancora con due grandi problemi: il giudaismo e lo gnosticismo.
Con il giudaismo, da cui era nato, come abbiamo già visto, il Cristianesimo non aveva ancora fatto definitivamente i conti, anzi si può ben dire che per tutto il secondo secolo la storia della Chiesa appare dominata dal problema del Giudai-smo e della Scrittura. E tuttavia il problema più grosso non è costituito da quei cristiani che restano fedeli alle tradizioni e alle prescrizioni giudaiche, ma da quei cristiani che contestano in maniera radicale il giudaismo.
Un preannuncio di questa posizione è dato dalla Lettera di Barnaba, redatta verso il 130 d.C., dove per la prima volta il Cristianesimo cerca di definire la propria identità attraverso una valutazione complessiva della religione giudaica, che è in realtà una quasi totale condanna. L’autore, che forse viene da Alessandria d’Egitto, non attribuisce alcun valore alle istituzioni dell’Antico Testamento, che vanno interpretate in maniera allegorica. Solo il diavolo può aver spinto i Giudei a interpretare in senso letterale le prescrizioni della Legge.
Ma è Marcione colui che porta alle estreme conseguenze l’antagonismo contro il giudaismo e il Vecchio Testamento. Combattuto vivacemente in Asia da Papia di Geropoli e da Policarpo di Smirne, Marcione giunge a Roma verso il 140 d.C. ed entra nella comunità cristiana locale, beneficandola con una ingentissima somma (Tertulliano parla di 200.000 sesterzi). Ma quattro anni dopo fu espulso dalla comunità di Roma e così egli fondò una sua chiesa separata, che si contrappose a quella “ortodossa”.
L’interpretazione del pensiero di Marcione non è facile. Le sue opere sono andate quasi totalmente distrutte, coinvolte con quelle degli gnostici, nella condanna della Chiesa ufficiale.
«L’idea centrale del pensiero di Marcione sembra essere comunque quella del contrasto insanabile tra la legge di Mosè, che esige la giustizia, e il vangelo di Gesù che proclama la grazia, tra i libri che costituiscono la Scrittura dei giudei e quelli che dovrebbero costituire la Scrittura dei cristiani, anzi tra il Dio stesso dei giudei, creatore e giusto, e il Dio dei cristiani, salvatore e buono. Per questo egli aveva raccolto in un suo libro perduto tutte le Antitesi che si possono ravvisare tra la legge giudaica e il vangelo cristiano. Il dio dei giudei non è infatti per Marcione il Dio supremo, di bontà e misericordia, ma un dio inferiore, artefice (demiurgo) di questo mondo materiale e malvagio e dispensatore della Legge severa e crudele. Il vero Dio è rimasto sconosciuto fino alla venuta di Cristo. Questi è infatti il Salvatore mandato dal Dio buono che ne rivela finalmente la vera natura e libera definitivamente dalla Legge. Anch’egli è totalmente estraneo a questo mondo materiale. Venendo infatti nel mondo, egli è venuto in una realtà “straniera”. E anche quando si è manifestato agli uomini non ha fatto sue le realtà mondane. Il corpo di Cristo, la sua “incarnazione”, è infatti soltanto apparente. E la sua morte in croce, voluta dal creatore ma assolutamente non prevista dall’Antico Testamento, non fa che ribadire la condanna del mondo.
Sono queste le affermazioni principali di Marcione, che ne caratterizzano in maniera essenziale il pensiero teologico; ma accanto ad esse vi sono affermazioni altrettanto decise e significative sul piano morale, che non hanno mancato di esercitare un loro fascino. Da queste premesse sulla origine del mondo e sulla natura della realtà materiale, da questa rivolta radicale contro la creazione, deriva infatti l’esigenza marcionita di una rigorosa continenza, ascesi sessuale, che neghi totalmente le opere del mondo e della carne.
Ora l’unico autore che per Marcione ha compreso veramente questo contrasto insanabile tra legge giudaica e vangelo cristiano è stato Paolo. Sono i testi dell’apostolo (in particolare quelli dove con più forza è affermata la novità del vangelo rispetto alla Legge, e quindi non le più deboli Lettere pastorali a Timoteo e a Tito) che devono costituire perciò il nucleo essenziale della Scrittura cristiana. Ad essi possono essere aggiunti solo pochi altri testi (per esempio il Vangelo di Luca, che più degli altri, nel distanziarsi dal giudaismo, rivela un carattere “paolino”; anch’esso però opportunamente corretto sulla base dell’insegnamento genuino di Paolo)» (ivi, p. 98).
Insieme a Marcione e alla sua lotta senza quartiere contro il Giudaismo, l’altro grande problema del Cristianesimo del secondo secolo fu il confronto con lo Gnosticismo (la Gnosi). Alcuni lo ritengono un fenomeno interno al Cristianesimo, un’eresia cristiana (A. von Harnack), altri un fenomeno della storia delle religioni, nato probabilmente in Oriente già prima di Cristo e diffusosi poi in Occidente penetrando anche nel Cristianesimo.
Fino al 1945 gli studiosi conoscevano lo gnosticismo quasi esclusivamente dalle notizie e dagli estratti contenuti nelle confutazioni dei Padri della Chiesa Ireneo di Lione e Ippolito di Roma e dei cosiddetti “eresiologi”, come Tertulliano, Clemente, Epifanio, ecc. ecc. Ma nel 1945 fu scoperta a Nag Hammadi nell’Alto Egitto un’intera biblioteca gnostica (53 volumi) in lingua copta che dette la possibilità di conoscere lo gnosticismo in maniera più diretta. In realtà la loro interpretazione confermò ampiamente le notizie già contenute nelle opere di Ireneo (Adversus Haereses) e di Ippolito (Refutatio omnium haeresium).
Questi testi, pubblicati tra il 1972 e il 1977, portano in italiano il titolo di Apocrifi del Nuovo Testamento e sono a tutt’oggi oggetto di un’indagine difficile e complicata.
«Tratti essenziali della Gnosi, al di là delle numerosissime differenze fra le varie correnti (fra loro divergenti in vario modo), sono i seguenti.
a) L’oggetto specifico della “conoscenza” gnostica è Dio e le cose ultimative concernenti la salvezza dell’uomo. Un testo basilare spiega, in modo riassuntivo, che la Gnosi riguarda: 1) chi eravamo e che cosa siamo divenuti, 2) dove eravamo e dove fummo gettati, 3) dove desideriamo andare e da dove siamo stati riscattati, 4) che cos’è la nascita e che cos’è la rinascita.
b) Nell’esperienza dello Gnostico la tristezza e l’angoscia emergono come fondamentali, perché rivelano un impatto con il negativo e la conseguente presa di coscienza di una radicale scissione fra bene e male, e rivelano, altresì, la nostra vera identità, che consiste nell’appartenenza al bene originario: se l’uomo soffre il male, vuol dire che appartiene al bene. Dunque, l’uomo proviene da un altro mondo, e ad esso deve fare ritorno. Questo mondo è il nostro “esilio” e l’altro mondo è la nostra “patria”. In uno dei più significativi documenti gnostici si legge: “Chi ha conosciuto il mondo, ha trovato un cadavere; e il mondo non è degno di chi ha trovato un cadavere”. Lo Gnostico deve prendere coscienza di sé, e, conosciuto sé, attraverso sé, potrà ritornare alla patria originaria. In questo “ritorno” giova un ruolo essenziale il Salvatore (Cristo), che è uno degli “eoni” divini (cfr. sotto, i punti d-e).
c) Gli Gnostici dividono gli uomini in tre categorie: 1) pneumatici, 2) psichici e 3) ilici. Nei primi predomina lo Spirito (Pneuma), nei secondi l’anima (psyché) e nei terzi la materia (hyle). Questi ultimi sono destinati alla morte, i primi alla salvezza, mentre i secondi hanno la possibilità di salvezza, se seguiranno le indicazioni dei primi, ossia degli eletti che sono in possesso della “Gnosi”.
d) Questo mondo, che è male, non è stato fatto da Dio, ma da un Demiurgo malvagio. J. Doresse (uno degli studiosi contemporanei più competenti in materia) ritiene che l’essenza dello Gnosticismo sia espressa nelle seguenti parole di Plotino in maniera perfetta: gli Gnostici “sostengono che il Demiurgo di questo mondo è cattivo e che il cosmo è cattivo”. Si spiega, così, il fatto che il Dio del Vecchio Testamento, creatore di questo mondo, venisse identificato con questo “Demiurgo cattivo”, e che venisse contrapposto al Dio benigno del Vangelo, che ha invece mandato il Cristo salvatore; Cristo è un’entità divina, la quale è venuta sulla terra rivestita di un corpo solo apparente. (È un’idea questa che, come i veri Cristiani tosto rilevarono, vanificava la passione, la morte e la risurrezione di Cristo, e comportava molte e gravi conseguenze derivanti per necessità logica da queste premesse). L’interpretazione allegorica dei testi sacri permetteva agli Gnostici di piegarli a tutte le loro esigenze e di farli combaciare con le loro dottrine.
e) Il sistema gnostico si complica particolarmente là dove tenta di spiegare la derivazione di tutta la realtà intelligibile dall’unità primordiale attraverso una serie di “eoni” (entità eterne) che emanano a coppie (Cristo sarebbe, secondo alcuni, l’ultimo eone), e la derivazione stessa dell’uomo. A questo riguardo, il pensiero gnostico risulta ulteriormente complicato dall’intervento di narrazioni mitologiche e fantastiche di vario genere e di varia genesi.
f) La dottrina gnostica si presenta come dottrina segreta, rivelata da Cristo a pochi discepoli, ed è rivolta specie ai ceti colti e raffinati, e, quindi, ha carattere aristocratico, in antitesi con l’autentico spirito evangelico. I Vangeli gnostici si presentano, appunto, come i documenti di questa “rivelazione segreta”.
Fra i sostenitori di dottrine gnostiche ricordiamo: Carpocrate e il figlio Epifane, Basilide e il figlio Isidoro, e, soprattutto, Valentino, che ebbe molti seguaci.
I Padri trovarono (e a giusta ragione) nelle dottrine gnostiche un ginepraio di dottrine eretiche. Ma le loro insistenti polemiche dimostrano la forte presa sugli animi che il movimento dovette avere nell’antichità. In effetti, in quell’età che vedeva un mondo spirituale perire e un altro sorgere, e che proprio per questo fu un’età dominata dall’angoscia, gli Gnostici davano (forse più di altre dottrine filosofiche) un senso a questa angoscia, e, quindi, erano in sintonia con un certo modo di sentire che era proprio di quei tempi. In uno dei documenti scoperti a Nag Hammadi si legge: “L’ignoranza del Padre aveva causato angoscia e terrore. L’angoscia si era fatta densa come nebbia, in modo che nessuno potesse vedere…”. La materialità stessa e la corporeità, come sappiamo da altra fonte, costituivano per essi esperienza di “terrore, dolore, mancanza di via d’uscita”. Ma il messaggio gnostico, per quanto potesse rispondere a precise istanze di quell’epoca, si rivelò fragile e senza futuro» (G. Reale, Il pensiero occidentale, vol. 1°, La Scuola, BS, pp. 310-311).
È con il diffondersi della letteratura apocrifa che di per sé non vuol dire né eretica, né falsa, ma semplicemente non-canonica, cioè non scelta dalla tradizione delle Chiese, che si impone la raccolta di un corpus di testi da considerarsi normativi. Più che la decisione della gerarchia ecclesiastica, sono i testi stessi, che appaiono testimoni scelti di quella tradizione, che si impongono progressivamente alla fede della Chiesa. Alla fine del secondo secolo due testimonianze si impongono: l’elenco di Ireneo di Lione (180-190) e un testo frammentario scoperto nel 1740 alla Biblioteca Ambrosiana passato sotto il nome di Frammento Muratoriano (in G. Iossa, op. cit., pp. 109-110).
APPENDICE I
I cristiani nel mondo
Di tutta la letteratura apologetica questa «Lettera a Diogneto» è certamente uno dei passi più brillanti e letterariamente di maggior pregio. Rappresenta una esposizione sintetica, ma estremamente vibrante della visione del mondo dei cristiani; è una voce singola, però riflette ed esprime in modo esemplare il modo comune dei cristiani di allora di porsi di fronte alla vita. Con questo scritto il cristianesimo nascente ha raggiunto ormai una matura consapevolezza di sé e si può mostrare al mondo con un preciso volto ed una sicura collocazione. Non è più una piccola setta giudaica o uno dei tanti culti più o meno orientaleggianti che invadono l’impero romano, affascinando per un attimo gli spiriti del tempo, ma si presenta come una religione universale, che richiede un’adesione ed un impegno totale da parte di chi la vuole abbracciare.
Poiché i cristiani non si distinguono dagli altri uomini né per il paese, né per la lingua, né per le fogge del vestire. Non abitano infatti città loro proprie, non si servono di un linguaggio particolare, il loro tipo di vita non ha nulla di singolare. Non è all’immaginazione o alla riflessione di spiriti irrequieti che la loro dottrina deve la sua scoperta; non si fanno, come tanti altri, i campioni di una dottrina umana. Abitano in città greche e barbare, come a ciascuno è toccato in sorte; si conformano agli usi locali nella foggia del vestire, nel cibo e nel modo di vivere, pur mostrando le leggi straordinarie e veramente paradossali della loro repubblica (spirituale). Risiedono ciascuno nella sua propria patria, ma come stranieri domiciliati; partecipano di tutti i loro doveri di cittadini e sopportano tutto come stranieri. Ogni terra straniera è una patria per loro e ogni patria è una terra straniera. Si sposano come tutti ed hanno figli, ma non abbandonano i loro neonati. Hanno comune la mensa, ma non il letto. Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. Passano la loro vita sulla terra, ma sono cittadini del cielo. Obbediscono alle leggi stabilite e il loro tenore di vita sopravanza in perfezione le leggi stesse. Amano tutti gli uomini e tutti li perseguitano. Non li si conosce e li si condanna; li si mette a morte e per questo stesso guadagnano la vita. Sono poveri e fanno ricchi molti; mancano di tutto e sovrabbondano in ogni cosa. Li si disprezzi e in questo disprezzo trovano la loro gloria; li si calunnia e (proprio per questo) sono resi giusti. Li si insulta ed essi benedicono. Li si oltraggia ed essi onorano. Pur facendo solo del bene, sono puniti come dei malfattori; puniti, gioiscono come se nascessero alla vita. I Giudei fanno loro guerra come a gente straniera; sono perseguitati dai Greci e quelli che li detestano non sanno dire il motivo del loro odio.
Per dirla in una parola, ciò che l’anima è nel corpo i cristiani lo sono nel mondo. L’anima è diffusa in tutte le membra del corpo come i cristiani nelle città del mondo. L’anima abita nel corpo e tuttavia non è del corpo, come i cristiani abitano nel mondo ma non sono del mondo. Invisibile, l’anima è tenuta prigioniera in un corpo visibile: così i cristiani lo si vede bene che sono nel mondo, ma il culto che rendono a Dio rimane invisibile. La carne detesta l’anima e le fa guerra, senza averne ricevuto torto alcuno, ma solo perché le impedisce di godere dei piaceri: allo stesso modo il mondo detesta i cristiani, che non gli fanno torto alcuno, per il fatto che si oppongono ai suoi piaceri. L’anima ama questa carne che la detesta, e le sue membra, come i cristiani amano quelli che li detestano. L’anima è racchiusa nel corpo: è tuttavia lei che mantiene il corpo; i cristiani sono come detenuti nella prigione del mondo: sono tuttavia loro che mantengono il mondo. Immortale, l’anima abita una tenda mortale: così i cristiani dimorano come stranieri nel corruttibile in attesa dell’incorruttibilità celeste. L’anima diventa migliore, mortificandosi con la fame e con la sete: perseguitati, i cristiani di giorno in giorno si moltiplicano sempre più. Così nobile è il posto che Dio ha assegnato loro, che non è permesso loro di disertare (lett. abbandonarlo).