Canova, 19 gennaio 2007
(don Marcello Farina)
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1) L’eredità precedente

Vale la pena, all’inizio di questo secondo momento di riflessione sulla DSC (Dottrina Sociale Cattolica) di ripercorrere il cammino percorso dalla promulgazione della Rerum Novarum del 1891 fino ai prodromi della prima guerra mondiale (1914-18), segnato, come si è visto, da un iniziale enorme entusiasmo per l’azione di Leone XIII (1878-1903) e poi ridimensionato e perfino «sconfessato» dall’opera restauratrice e centralizzatrice di Pio X (1903-1914). Chi leggesse oggi la Rerum Novarum può provare un’impressione di disagio per il tono solenne e in parte paternalistico, per l’eco del passato che appare in vari tratti (lo Stato premoderno), per l’imprecisione in cui restano alcuni punti importanti, per la timidezza con cui si traggono le conclusioni dei princìpi pur altamente affermati, per la sottolineatura più del fine morale che non di quello sociale ed economico nelle associazioni professionali (padroni e operai), per una sorta di «sociologia della rassegnazione», che invitava a sopportare la povertà e la sofferenza come costitutive dell’ordine politico. Ma può anche accorgersi che nell’enciclica del 1891 Leone XIII raccoglie i frutti di almeno un cinquantennio di elaborazione cristiana in materia (dalla Scuola di Liegi alla Unione di Friburgo, da Ketteler a Toniolo, si potrebbe dire), quali l’aspetto umano del salario, il diritto all’associazionismo operaio e alla stessa organizzazione sindacale, l’intervento dello Stato in
economia.
I cinque princìpi della Rerum Novarum, ricordati più tardi da Giovanni XXIII nella Mater et Magistra (1961) – cioè
a) la solidarietà umana e cristiana,
b) la libertà di associazione,
c) la funzione sociale della proprietà privata,
d) la concezione del lavoro non come merce, soggetta all’arbitrio della legge della domanda e dell’offerta, ma come mezzo per l’uomo di sviluppare la sua personalità,
e) il diritto dello Stato di intervenire in materia economica,
– sono delle affermazioni che superano chiaramente lo stadio paternalistico e moralistico. Non solo sottomissione e pazienza quindi, ma anche rivendicazione di diritti e di nuove regole di convivenza sociale e politica.
Si spiega così, come sullo slancio provocato dal documento pontificio del 1891, in molti Paesi europei sia sorto, verso la fine del secolo XIX, un movimento molto complesso d’indole economica, sociale, politica e talvolta religiosa, che, nella sua ricerca di andare verso il popolo, includeva esigenze di vario tipo, comprese quelle di un rinnovamento della società ecclesiastica accanto all’accettazione senza riserve delle istituzioni e del metodo democratico. Tale movimento fu chiamato «democrazia cristiana», perché si assunse il compito di fare della giustizia e della carità cristiana la base per un’ampia legislazione sociale e per un impegno personale nella vita quotidiana dei credenti.
Sull’onda emotiva suscitata dall’iniziativa di papa Leone «la democrazia cristiana» si diffuse so-prattutto in Francia, in Belgio e, con caratteristiche specifiche, in Italia.
Si è già ricordata l’opera di don Romolo Murri (1870-1944), fondatore del movimento politico, che assunse quel nome nel 1899, uomo entusiasta che riuscì a coagulare intorno al proprio ideale molti giovani e molti preti, che chiedevano da tempo una maggior giustizia sociale e coltivavano l’idea di una democrazia sollecitata dai valori evangelici. Così si è anche ricordato, il fatto che il mondo cattolico italiano (e non solo italiano) era profondamente diviso al suo interno, tra i seguaci del vecchio regime conservatore («nihil innovetur nisi quod traditum est»), che avevano la maggioranza all’interno dell’Opera dei Congressi e i cosiddetti «novatori», guardati con sospetto e spesso addirittura accusati di essere sovversivi e simpatizzanti socialisti. Tra costoro evidentemente c’erano anche i seguaci di don Murri.
Il dibattito fu durissimo, sia teorico che pratico, con personalismi e reciproche scomuniche, tanto che Leone XIII si sentì in dovere di intervenire nel 1901 con l’enciclica Graves de communi re, per chiarire il significato di «democrazia cristiana», così da consacrarne, per così dire, il nome, ma escludendo da essa ogni interpretazione «politica», anzi definendola «benefica azione cristiana a favore del popolo», che non doveva in nessun modo ricopiare strutture organizzative e concetti che potessero far riferimento alla lotta di classe. Un documento di compromesso, quindi, paradossalmente letto da entrambi gli schieramenti cattolici come un sostegno alla loro posizione: i conservatori vi lessero la condanna della «democrazia cristiana», i murriani si sentirono sostenuti nella loro azione di promozione sociale e politica, anche se furono obbligati a ritornare all’interno dell’Opera dei Congressi e ad accogliere un assistente ecclesiastico nominato dal vescovo locale.
Con Pio X (1903-1914), il nuovo Papa, che coltivava già di per sé una grande diffidenza per le idee democratiche, il destino della «democrazia cristiana» era segnato. Come si è già visto nel primo nostro incontro, con il Motu proprio «Fin dalla prima nostra enciclica» del 18 dicembre 1903, egli sconfessò il movimento di Romolo Murri, perché accentuava troppo l’aspetto politico e l’indipendenza dalla gerarchia e poi, l’anno dopo, 1904, sciolse l’Opera dei Congressi e dei Comitati cattolici in Italia, intendendo con quella decisione dare un significato più religioso all’azione dei cattolici e mantenerla unita e dipendente dalla gerarchia. (È in questo momento e in questo clima che, di fatto, si compie la nascita dell’Azione cattolica, intesa come attività laicale in una direzione religiosa in stretta dipendenza dai vescovi). È in questa direzione che si muove tutta l’azione «politica e sociale» di Pio X, che già nel 1904 toglie di fatto il non-expedit e promuove l’avvicinamento del mondo cattolico ai liberali, consentendo l’esperimento dei «cattolici deputati» nelle liste liberali, che avrebbe portato nel 1913 al cosiddetto Patto Gentiloni. Della DSC di Leone XIII non rimaneva che un pallido ricordo.

2) Pio XI e la Quadragesimo Anno (1931)

Il successore di Pio X, Benedetto XV (1914-1922) fu, come si sa, il Papa della prima guerra mondiale e del periodo travagliato delle trattative di pace, acuito dal sorgere di nuovi e gravi conflitti sociali. «Ognuno invoca lo stesso Dio per distruggere gli uomini della stessa fede. Tranne la grande e inascoltata parola del papa Benedetto XV, nobile e incompreso pontefice, nessuna parola, nessun sentimento di religione, abbre-viarono di un’ora sola gli orrori della guerra»: così scriveva Francesco Saverio Nitti in quegli anni spaventosi di Benedetto XV. Il quale, però, a differenza di Pio X, manifestò attenzione e simpatia nei confronti dei cattolici che avessero voluto assumersi diretta responsabilità all’interno della vita politica italiana, così che nel 1919 essi dettero vita al Partito popolare italiano con don Luigi Sturzo e Alcide Degasperi. Ma, poi, la morte del Papa e, soprattutto, l’avvento del fascismo posero rapidamente fine anche a questo
esperimento storico.
Così il 6 febbraio 1922 veniva eletto Papa il milanese Achille Ratti con il nome di Pio XI (1922-1939).
«A leggere i documenti del suo pontificato e a valutarne globalmente gli atti si potrebbe dire che il suo pro-gramma partiva da una scarsa considerazione degli sforzi puramente umani, unita logicamente a un pessimismo verso il mondo e la società moderna – ritenuti ancora frutto della rottura protestante e del laicismo –, e da una conseguente necessità di penetrazione delle idee cristiane, e della Chiesa che le incarnava, nelle strutture sociali per la stessa salvezza della umanità. Gli strumenti poi sui quali contava, e con la massima duttilità in ragione delle circostanze, proprio per il raggiungimento di quei fini (tanto che qualcuno ha potuto parlare di un certo machiavellismo di Pio XI e in modo particolare del suo primo segretario di Stato, card. Gasparri), erano i rapporti concordatari con gli Stati e l’organizzazione laicale dell’Azione cattolica. Entrambi avrebbero dovuto servire ad un rafforzamento interno ed esterno della Chiesa, attorno alla Gerarchia e di fronte alle nazioni» (S. Tramontin, Un secolo di storia della Chiesa, ed. Studium, vol. 1°, pag. 151).
Artefici precipui di questa restaurazione cristiana avrebbero dovuto essere, con opera congiunta, attiva e instancabile, clero e laici, sotto la guida dei vescovi, per instaurare la Pax Christi in regno Christi, che era il suo motto pontificale. Questo era anche il contenuto delle sue prime encicliche, l’Ubi arcano Dei, che conteneva il suo programma di governo (1922), e la Quas primas della fine del 1925, destinata a suggellare il successo dell’Anno santo e a istituire la festa di Cristo Re. E a coinvolgere anche gli Stati nella promozione del regno di Dio Pio XI lo tentò attraverso la politica concordataria (10 concordati, quattro convenzioni e due modus vivendi), per assicurare almeno il libero e pubblico esercizio della religione cattolica, unita al riconoscimento della natura pubblica della Chiesa. In Italia, poi, il Concordato del 1929 portò a soluzione anche l’annosa «questione romana» attraverso i «Patti Lateranensi» tra Santa Sede e regime fascista, con tutte le conseguenze che qui non è il caso di esaminare.
L’enciclica Quadragesimo anno del 15 maggio 1931, che commemora i quarant’anni dalla Rerum Novarum, rappresenta il punto di arrivo del pensiero «sociale» di Papa Ratti, che certamente affronta un’analisi più matura della realtà politica e sociale, di quanto non abbia fatto Leone XIII a suo tempo, accompagnata anche da un temperato ottimismo nei confronti degli sforzi compiuti dagli uomini e dalle donne nell’ambito sociale ed etico, superando così la solita denuncia impaurita e lacrimosa del pervertimento morale, tipica dei documenti ecclesiastici a partire addirittura da Pio IX.
Il documento pontificio è attraversato, per così dire, da due «concetti» di particolare im-portanza: quello di «giustizia sociale», che il Papa introduce definitivamente nel vocabolario della morale cattolica (in riferimento al «bene comune») e quello di «corporativismo mitigato», come qualche studioso chiamerà il tentativo del Papa di indicare un progetto politico, che superasse i due «estremi» dello Stato liberale e dello Stato socialista, entrambi giudicati inadatti a promuovere il bene comune. Si trattava, per questo secondo «concetto», di favorire la costruzione di uno Stato corporativo, cioè costituito da liberi raggruppamenti (le corporazioni), i quali, evitando sia gli estremi individualistici che quelli statalistici, avrebbero potuto, da un lato, procurare ai loro membri vantaggi professionali e, dall’altro, mantenere viva la preoccupazione per il bene comune, collaborando con l’istituzione statuale politica (una sorta di «terza via» tra liberalismo e socialismo!).
Rispetto allo Stato corporativo fascista, che era allora fiorente in Italia (e a cui Pio XI riservava una «benevola considerazione»), il disegno della Quadragesimo Anno esprimeva alcune caratteristiche proprie: ad es., l’ammissione di classi sociali differenziate, la difesa della persona, la libertà sindacale, il diritto di sciopero, l’autonomia dal potere politico (il principio di «sussidiarietà», come si vedrà più avanti). L’enciclica, inoltre, segnava un notevole progresso anche per quanto riguardava la dottrina del salario, proclamando l’esigenza del salario familiare e invitando a superare la situazione del proletariato «temperando il contratto d’opera con quello di società», introducendo cioè varie forme di cooperazione e compartecipazione. Né si deve trascurare il severo giudizio sull’economia di allora e sulle cause che avevano portato all’accumularsi di un potere economico enorme in mano a pochi. Scrive Papa Ratti: «Alla libertà di mercato è sottentrata l’egemonia economica; alla bramosia di lucro è seguita la sfrenata cupidigia del predominio; tutta l’economia è così diventata orribilmente dura, inesorabile, crudele».
In sintesi quattro possono essere riconosciuti i passaggi dottrinali più importanti della Quadragesimo Anno:
a) il diritto e l’uso della proprietà privata;
b) la relazione tra capitale e lavoro;
c) il principio di sussidiarietà e, come si è già visto,
d) lo Stato corporativo.
Brevemente:
a) Il diritto e l’uso di proprietà privata. Papa Ratti attenua in questo contesto la dottrina della Rerum Novarum circa l’assolutezza del diritto di proprietà privata come «ineccepibile diritto di na-tura», distinguendo tra «diritto» e «uso» della proprietà. Il «diritto» resta stabilito a priori nella sua universalità e necessità; l’«uso», invece, diventa strumento per l’ulteriore elevazione dell’uomo, «entro le necessità della convivenza sociale» (è la «giustizia sociale», di cui si parlava sopra).
b) La relazione tra capitale e lavoro porta con sé l’affermazione che, se la ricchezza deriva dall’opera compiuta congiuntamente dal «capitale» e dal «lavoro», allora è giusto che essa sia ridistribuita parimenti tra padroni e lavoratori. Ma al principio, così innovativo per la DSC, non fa seguito un approfondimento concreto, perché Pio XI vuole rimanere equidistante tra liberalismo e socialismo!
c) Il principio di «sussidiarietà» è, a sua volta, il passo più noto di tutta l’enciclica, che afferma: «Siccome è illecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l’industria propria per affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere ad una maggiore e più alta società quello che dalle minori ed inferiori comunità si può fare. Ed è questo insieme un grave danno e uno sconvolgimento del retto ordine della società; perché oggetto naturale di qualsiasi intervento della società stessa è quello di aiutare in maniera suppletiva le assemblee del corpo sociale, non già distruggerle ed assorbirle» (n. 80, QA).
Secondo la Quadragesimo Anno, come si può vedere, si richiede e si auspica, per il mantenimento di un ordine sociale degno dell’uomo, che il coordinamento delle attività degli indi-vidui e dei gruppi, nell’organizzazione politica della società, sia regolato dal principio di «sussi-diarietà», secondo il quale le società superiori (come lo Stato e le Comunità internazionali), per il raggiungimento del loro scopo, devono rispettare l’attività relativamente autonoma dei gruppi intermedi, valorizzarli per il bene comune a cui essi mirano, prestare loro l’aiuto e la protezione di cui hanno bisogno. Secondo Pio XI è proprio il principio di sussidiarietà che garantisce e protegge le persone dagli abusi delle istanze sociali superiori, avendo anche il compito di sollecitare lo Stato ad aiutare i singoli individui o i corpi intermedi a sviluppare le loro attitudini e capacità.
«Sul piano più strettamente giuridico, poi, il principio di sussidiarietà ha una duplice valenza: esso indica un paradigma ordinatore dei rapporti tra Stato, formazioni sociali, individui (sussidiarietà orizzontale), sia un criterio di distribuzione delle competenze tra Stato e autonomie locali (sussidiarietà verticale). In quest’ultima accezione esso ripropone la dimensione federale propria dello Stato, secondo la quale la ripartizione del potere tra diversi livelli territoriali è essenziale per realizzare quella vicinanza dei governanti ai governati, valore primario della democrazia. Al principio federale tradizionale il principio di sussidiarietà verticale aggiunge un elemento im-portante costituito dalla necessità di giustificare l’esercizio da parte del livello di governo superiore delle competenze attribuite per costituzione sulla base di accertate inadeguatezze del livello inferiore» (E. Malnati, La dottrina so-ciale della Chiesa. Un’introduzione, Eupress, pag. 75).
d) Lo «stato corporativo» è già stato delineato nelle pagine precedenti. Qui si può sottolineare l’entusiasmo con cui Pio XI lo propone come unico vero rimedio ai guasti prodotti tra le classi sociali.
«La guarigione perfetta – afferma il Papa al n. 83 – si potrà ottenere allora soltanto, quando, tolta di mezzo tale lotta, le membra del corpo sociale si trovino bene assestate e costituiscano le varie professioni, a cui cia-scuno aderisca non secondo l’ufficio che ha nel mercato del lavoro, ma secondo le diverse parti sociali che i singoli esercitano. Avviene infatti per impulso di natura che, siccome quanti si trovano congiunti per vicinanza di luogo si uniscono a formare municipi, così quelli che si applicano ad un’arte medesima, formino collegi o corpi sociali; di modo che queste corporazioni, con diritto loro proprio, da molti si sogliono dire se non essenziali alla società civile, almeno naturali».
Con la Quadragesimo Anno Papa Ratti ha, quindi, delineato una «dottrina sociale» compiuta, una sorta di «sistema della giustizia» sia individuale che collettiva, che avrebbe dovuto superare le difficoltà dello Stato liberale e dello Stato socialista.
Ma il suo pensiero va completato con altri due interventi, soprattutto di natura politica, seguiti alla Quadragesimo Anno, entrambi del marzo del 1937: la Mit brennender Sorge («Con viva preoccupazione») sulla situazione della Chiesa cattolica nella Germania di Hitler e la Divini Redemptoris promissio, contro il comunismo bolscevico. Si potrebbe pensare che i due documenti contengano una chiara condanna dei contrapposti sistemi totalitari, ma, in realtà, le cose stanno diversamente.
Nella Mit brennender Sorge (MBS) sorprende la totale assenza di un riferimento esplicito al Nazismo e ai suoi aberranti princìpi politici e sociali. Ciò che sconcerta il Pontefice è piuttosto l’esaltazione quasi religiosa della propaganda nazista che presentava Hitler come nuovo redentore e rivelatore di una nuova società.
«La rivelazione culminata nell’Evangelo di Gesù Cristo – protesta appunto Papa Ratti – è definitiva e obbligatoria per sempre, non ammette appendici di origine umana e, ancora meno, succedanei o sostituzioni di rive-lazioni arbitrarie, che alcuni banditori moderni vorrebbero far derivare dal così detto mito del sangue e della razza […] Anche se un uomo identifichi in sé ogni sapere, ogni potere e tutta la possanza materiale della terra, non può gettare fondamento diverso, da quello che Cristo ha gettato (1 Cor. 3, 11). Colui quindi che […] osasse porre ac-canto a Cristo e ancora peggio, sopra di Lui o contro di Lui, un semplice mortale, fosse anche il più grande di tutti i tempi, sappia che è un profeta di chimere».
La denuncia e l’accusa si mantengono a questo alto livello teologico-religioso, anche quando vertono sulle gravi violazioni del Concordato tra il Reich e la Santa Sede del 1933. Anzi, sembra quasi che le responsabilità non siano del capo, di Hitler, ma dei suoi adulatori, che ne esaltano oltremisura la persona. Scrive ancora Pio XI: «Se la razza o il popolo, se lo Stato o una sua determinata forma, se i rappresentanti del potere statale o altri elementi fondamentali della società umana hanno nell’ordine naturale un posto essenziale e degno di rispetto; chi peraltro li distacca da questa scala di valori terreni, elevandoli a suprema norma di tutto, anche dei valori religiosi, e divinizzandoli con culto idolatrico perverte e falsifica l’ordine da Dio creato e imposto, è lontano dalla vera fede in Dio e da una concezione della vita a essa conforme».
Sincerità impone, purtroppo, di rilevare un ulteriore aspetto che infosca il magistero di Pio XI e, indirettamente, getta ombra sul lamentato silenzio, intorno alla questione ebraica, del suo successore Eugenio Pacelli, allora segretario di Stato, e certamente non estraneo alla confezione finale dell’enciclica: sebbene già da due anni fossero in vigore le leggi razziali di Norimberga che avevano conferito legalità e cogenza all’antisemitismo, neppure un fugace richiamo a favore degli ebrei già perseguitati è presente nella Mit brennender Sorge. L’ansia del Pontefice sorgeva semmai alla larga, per il pericolo che nascesse una «chiesa nazionale tedesca» affrancata dal disturbo della radice ebraica del cristianesimo e industriosa nel cercare altre radici «ariane», ad esempio fra i «misteri» e i culti dell’antico paganesimo.
Altrettanto mediocre può apparire l’enciclica dirimpettaia contro il Comunismo, la Divini Redemptoris promissio, che sorprende, invece, per la smisurata esuberanza di una condanna sviscerata, perentoria, a tutto campo senza eccezione o remissione, atterrita e terrificante. Sin dall’inizio l’evento del «comunismo bolscevico e ateo» è collocato nella prospettiva dell’intera storia umana come il pericolo supremo, come la decisiva avversità al disegno di Dio.
Scrive Papa Ratti: «Il comunismo di oggi […] nasconde in sé un’idea di falsa redenzione. Uno pseudo-ideale di giustizia, di uguaglianza e di fraternità nel lavoro, pervade tutta la sua dottrina e tutta la sua attività di un certo falso misticismo, che alle folle adescate da fallaci promesse, comunica uno slancio e un entu-siasmo contagioso, specialmente in un tempo come il nostro, in cui da una distribuzione difettosa delle cose di questo mondo risulta una miseria non consueta».
E conclude: «Ecco, venerabili fratelli, il nuovo presunto vangelo, che il comunismo bolscevico e ateo annunzia all’umanità, quasi messaggio salutare e redentore! Un sistema, pieno di errori e sofismi, contrastante sia con la ragione sia con la rivelazione divina; sovvertitore dell’ordine sociale, […] misconoscitore della vera ori-gine della natura e del fine dello Stato, negatore dei diritti della personalità umana, della sua dignità e libertà».
Quanto questa visione sia passata, poi, nella storia successiva della Chiesa, fino a lambire anche i pontificati di Pio XII, di Giovanni XXIII e dello stesso Paolo VI, è sotto gli occhi di tutti.

3) Il pensiero «sociale» di Pio XII (1939-1958)

Un’ultima tappa diventa significativa nel nostro itinerario di ricerca dedicato alla Dottrina sociale della Chiesa: la riflessione di Eugenio Pacelli, Papa Pio XII. A prima vista sembra di dover riconoscere un certo disinteresse da parte sua per lo sviluppo teorico e per la promozione della dottrina sociale, un po’ come era accaduto ai tempi di Pio X. Il fatto stesso che egli si sia astenuto dallo scrivere una speciale enciclica su quel tema, limitandosi ad accennarvi brevemente in documenti di oggetto diverso, potrebbe convincere che così sia effettivamente avvenuto.
Ma ci sono almeno due testi che ci permettono di cogliere due importanti mutamenti di percorso inerenti la DSC. Il primo è nella enciclica che inaugura il suo pontificato, la Summi Pontificatus del 20 ottobre 1939, quando già gravava sull’Europa l’incubo di una guerra totale, iniziata poco tempo prima. In essa il Papa mette in evidenza quella che secondo lui è la causa del presente abisso: «l’ineguaglianza tra gli uomini, in base alla razza, alla nazione, alla cultura»; da qui viene ogni altro errore, tra cui, preminente, la subordinazione dell’individuo nei suoi diritti nativi e previi alla società e allo Stato. L’ordine della creazione (richiamato in Genesi 1, 26-27: «Dio ha fatto l’uomo a sua immagine e somiglianza») sta a fondamento, invece, della uguale dignità di ogni persona. È questa la «meravigliosa visione» che dà unità al genere umano e quindi genera uguaglianza e fratellanza fra tutti gli uomini.
Il secondo testo, sempre del 1939, è l’enciclica Sertum laetitiae (Corona di gioia), che egli scrisse per l’episcopato americano, dove il pensiero di Papa Pacelli è esposto con singolare chiarezza ed efficacia, ben più che nel radiomessaggio del 1941, solitamente riportato nelle raccolte di documenti pontifici in campo sociale.
Scrive Pio XII: «Punto fondamentale della questione sociale è questo, che i beni creati da Dio per tutti gli uomini equamente affluiscano a tutti, secondo i princìpi della giustizia e della carità. Le memorie di ogni età testimoniano che vi sono sempre stati ricchi e poveri; e l’inflessibile condizione delle cose umane fa prevedere che così sempre sarà. Degni di onore sono i poveri che temono Dio, perché di loro è il regno dei cieli e perché facilmente abbondano di grazie spirituali. I ricchi poi, se sono retti e probi, assolvono l’ufficio di dispensatori e procuratori dei doni terrestri di Dio; essi in qualità di ministri della Provvidenza aiutano gli indigenti, a mezzo dei quali spesso ricevono i doni che riguardano lo spirito e la cui mano – così possono sperare – li condurrà negli eterni tabernacoli».
Per lui il punto fondamentale dell’intera dottrina sociale è la destinazione dei beni creati. Anche il diritto di proprietà privata dovrà essere ricollocato in questa ottica generale, come il Papa ribadirà nei radiomessaggi del 1941 e del 1944. Non basta la generosità o l’elemosina, o la beneficenza, ma un mutamento strutturale dei rapporti sociali. Finisce l’epoca di Pio X, per il quale valeva «per i ricchi il dovere di sovvenire; per i poveri il dovere di rassegnarsi». Anzi, nell’orizzonte della verità e della creazione i poveri sono realmente, qui e ora, i prìncipi, i veri nobili, gli eredi del regno che li attende: i ricchi retti e probi, invece, appartengono, per così dire, a una «classe inferiore», quasi servile, come dispensieri e procuratori di beni terreni effimeri. Forse questa è la pagina più alta di tutta la dottrina sociale della Chiesa!